Capitolo 1 – Il bambino cieco e la sua famiglia – Cecità e autonomia: quando il padre è non vedente

Sommario:

d. Cecità e autonomia: quando il padre è non vedente

1- Quando il padre è non vedente

Le rapide e complesse trasformazioni socioculturali che hanno caratterizzato, durante questi ultimi decenni, il flusso del nostro vivere sociale rendono particolarmente difficile la definizione del ruolo paterno nel contesto della famiglia.
Volendo eludere un tentativo che ci condurrebbe in un labirinto di variabili e di contraddizioni, possiamo limitarci ad asserire che il padre conserva nella famiglia una funzione di coordinamento, con la quale le regole di ciascun membro trovano una cornice che per un verso le compone e per altro verso le dispone a confrontarsi con la realtà extrafamiliare.
In buona sostanza si tratta di una funzione rassicurante che viene vissuta dagli altri come un elemento di fiducia e di orientamento.
Occorre forse precisare che il ruolo paterno, per acquisire una fisionomia equilibrata ed efficace, deve essere controbilanciato dal ruolo materno, con il quale i membri della famiglia respirano un sentimento di comunione e di continuità.
Volendo semplificare e ridurre la questione entro uno schema logico, potremmo dire che mentre la madre offre alla famiglia attendibilità, regolarità e attenzione, il padre offre chiarezza delle regole, distinzione delle identità personali e sollecitazioni verso progetti.
Come si può ben constatare, entrambi i genitori costituiscono fonte di rassicurazione: la rassicurazione materna viene trasmessa soprattutto attraverso un segnale analogico di somiglianza, di rispecchiamento e di reciprocità, mentre la rassicurazione paterna viene trasmessa più che altro mediante segnali di autorevolezza e di abilità.
A questo punto è necessario chiarire che non sempre il ruolo paterno viene svolto dal genitore maschio, così come non sempre il ruolo materno viene svolto dal genitore femmina.
Nella maggior parte dei casi può verificarsi una mescolanza di questi ruoli nell’ambito della coppia genitoriale, cosa che rende più complesso, ma anche più ricco, il processo di identificazione sessuale dei figli.
Dopo aver svolto queste brevi considerazioni preliminari, ci possiamo finalmente chiedere se la disabilità visiva costituisca un impedimento o comunque una difficoltà rilevante per un uomo che venga chiamato dalle circostanze o dalla propria volontà a svolgere la funzione di padre.
Generalmente quando si affronta un simile problema, ci viene subito da pensare ai compiti di controllo, di vigilanza e di soccorso dei bambini, in particolar modo se bambini molto piccoli.
Effettivamente se ci concentriamo su questo punto la minorazione della vista costituisce un limite molto serio e non trascurabile, soprattutto in ambienti non conosciuti e in situazioni non familiari.
Un padre non vedente può dimostrarsi poco adatto a tutelare l’incolumità fisica di suo figlio, anche se dobbiamo dire che frequentemente la disattenzione genitoriale produce molti più guai della condizione di cecità.
In ogni caso bisogna comprendere che qui stiamo parlando di una prestazione di vigilanza e non certamente della funzione paterna.
Se non riusciamo a distinguere le funzioni educative primarie che debbono essere svolte dai genitori e le cosiddette funzioni di assistenza educativa, che possono essere svolte dai genitori ed anche da assistenti della famiglia, questo nostro discorso rischia di essere compromesso da un grave vizio di impostazione.
Escludendo alcune cure materne fondamentali, che opportunamente dovrebbero restare congiunte con la funzione materna primaria, tutte le altre funzioni genitoriali non dovrebbero essere percepite come prestazioni, poiché riguardano quasi interamente l’interazione e l’interdipendenza nell’ambito di una relazione interpersonale.
Sono la convivenza e la coesistenza dei figli con i loro genitori che offrono l’opportunità di una buona crescita, quando sono caratterizzate prevalentemente da qualità positive.
Un padre non vedente non viene diminuito dalla sua disabilità sensoriale, poiché essa non è parte della sua funzione paterna, ma soltanto elemento della sua dimensione umana.
La disabilità visiva può disabilitare la funzione paterna soltanto nel caso in cui la persona non vedente viva la propria minorazione come causa di complessiva inferiorità e con sentimenti di squalifica della propria identità sociale.
In tal caso sarà anche probabile che operi una scelta coniugale coerente con questo suo intimo sentimento, trovandosi poi a vivere con una moglie non disposta a riconoscergli l’integrità e la dignità del ruolo paterno.
Può accadere anche di peggio quando la cecità sopraggiunge nel corso della vita coniugale, dopo la nascita di uno o più figli.
In simili circostanze l’intero contesto sociofamiliare può spontaneamente squalificare la funzione paterna della persona divenuta non vedente.
Naturalmente i figli avvertono la tacita squalifica del padre e ne vengono sensibilmente disorientati.
In questi casi non è davvero facile rimettere le cose a posto, perché si tratta di atteggiamenti che nascono da remote convinzioni pregiudiziali che difficilmente potranno essere rivisitate.
Decisamente meno grave, anche se fastidiosa, è la squalifica che scaturisce dall’ambiente sociale generico, dalle parole e dai gesti della gente che si incontra negli ambienti pubblici.
In queste situazioni il bambino avverte l’aggressività e la spiacevolezza del messaggio, non sempre ne coglie l’autentico significato, ma comunque lo rifiuta cercando successivamente di evitarlo, così come si evita il dolore quando ci appare estraneo al sentimento della necessità.
Verso i dodici anni, mio figlio cominciò a rifiutare di accompagnarmi al supermercato, proprio perché in questo luogo gli altri clienti lo guardavano stranamente, mentre io toccavo le merci disposte sui banchi.
Ricordo che fu importante rispettare la sua sensibilità. Il rispetto della sua posizione lo aiutò a conquistare la dignità della mia condizione sociale e ad imparare come ci si comporta di fronte agli atteggiamenti intrusivi e compassionevoli, così frequenti in questa nostra società.
Ancora una volta è il caso di ribadire che la condizione di un disabile dovrebbe essere più compresa e meno sofferta.
Quando l’intelligenza prevale sul pathos, quasi magicamente le cose si semplificano, i dilemmi diventano problemi e le tragedie si trasformano gradualmente in storie di vita.

2- A proposito di fiducia

Il motivo principale che ci suggerisce di limitare la vita sociale di un soggetto minore è la convinzione che egli non abbia una sufficiente conoscenza dei propri limiti e delle proprie possibilità.
Infatti l’autonomia e la responsabilità scaturiscono prevalentemente da questa conoscenza che ci consente di misurare il pericolo presente nelle nostre iniziative e di organizzare consapevolmente le relative circostanze pratiche.
In altri termini la dipendenza consapevole dagli altri non compromette di per sé la cognizione dell’autonomia, anche se purtroppo la rende più impegnativa, più faticosa e anche più costosa.
In tal senso ci sembra di poter asserire che una limitazione funzionale, purché consenta alla persona che ne vive gli effetti una sufficiente coscienza della propria condizione, non può essere indicata come causa di non autonomia.
La condizione di cecità è particolarmente dolorosa proprio perché consente una lucida coscienza della perdita e del limite.
Nel caso specifico dei cosiddetti ciechi divenuti tale coscienza assume addirittura una chiarezza così brillante da offuscare per contrasto la fiducia nelle proprie possibilità.
Pertanto possiamo essere certi che una persona divenuta non vedente, nel pieno possesso delle facoltà mentali, non sottovaluti le insidie provenienti dalla propria limitazione e cerchi protezione nelle varie situazioni della vita sociale allo scopo di provvedere alla propria incolumità.
Naturalmente un genitore non vedente dotato di simile consapevolezza sarà spontaneamente indotto a cercare protezione per salvaguardare l’incolumità, la salute e il bene dei propri figli in misura anche maggiore di quanto non faccia per sé stesso.
Conseguentemente non riconoscere ad un simile genitore questo naturale sentimento di responsabilità e la capacità di concretizzarlo in un adeguato rimedio, implica un’offesa della sua immagine personale ed una squalifica del suo ruolo sociale.
In simili circostanze la fiducia è un atto dovuto sempre che non avvengano fatti tali da comprometterne realisticamente l’esercizio.
Talvolta la sfiducia è il frutto dell’ignoranza o del pregiudizio. Tali barriere culturali esigono un superamento, poiché costituiscono ancora oggi il principale danno per la qualità dell’esistenza dei cittadini disabili.