Sommario:
- Il bambino non vedente
- Aspetti cruciali nello sviluppo del bambino non vedente
- Per i genitori del bambino non vedente
- Cecità e autonomia: quando il padre è non vedente
b. Aspetti cruciali nello sviluppo del bambino non vedente
1. Considerazioni introduttive
L’insorgenza della cecità determina comunque una situazione di rischio nello sviluppo della persona.
Questo è vero soprattutto per quanto concerne l’equilibrio nel rapporto con gli altri, con la realtà oggettuale e con il proprio sé.
Qualcuno potrebbe subito obiettare che un simile equilibrio si dimostra difficile e delicato nello sviluppo di tutte le persone.
Francamente non ci sentiamo di contestare una tale affermazione, ciò nonostante ci sentiamo in dovere di precisare che la minorazione della vista pone un rischio aggiuntivo alla già complessa condizione dell’esistenza umana.
E’ necessario comprendere a fondo che il fatto di non vedere costituisce una importante alterazione dell’organizzazione cognitiva, determinando insoliti problemi di cambiamento sia socioculturale che personale.
Gli studiosi della cecità sono tutti concordi nell’affermare che il rischio, nello sviluppo del bambino non vedente, dipenda in misura preponderante dalle perturbazioni psicosociali derivanti dal modo di percepire e di vivere la presenza di un soggetto disabile visivo.
In buona sostanza gli aspetti del rischio possono essere così distinti:
a) problemi di interazione comunicativa, concernenti soprattutto la dimensione analogica della comunicazione;
b) problemi derivanti dalle modalità di socializzazione dell’esperienza percettiva;
c) problemi connessi con la permanenza dell’oggetto , soprattutto nella sua dimensione emozionale;
d) problemi concernenti l’imitazione e il gioco simbolico;
e) problemi interni al processo di conoscenza della minorazione e dei suoi effetti.
Come si può facilmente constatare, si tratta comunque di problemi coessenziali. Conseguentemente ciascuno di essi merita una focalizzazione ed un ragionamento particolari.
2. L’interazione comunicativa
La relazione con un soggetto non vedente ci pone immediatamente un problema di comunicazione. Infatti la mancanza della reciprocità oculare determina uno sconcerto più o meno grave della capacità intuitiva, generando disagio, esitazione e fraintendimento.
Il rispecchiamento delle condotte mimico espressive conferisce alla comunicazione la certezza della somiglianza, la fiducia di essere capiti e di capire.
Possiamo recuperare una soddisfacente spontaneità della comunicazione anche con la persona che non vede, ma soltanto dopo aver esaminato con attenzione la realtà dei suoi strumenti percettivi e delle sue condotte relazionali.
Può accadere che il turbamento ci impedisca di osservare con la necessaria serenità il comportamento comunicativo di un soggetto non vedente e di fraintendere, in senso negativo, l’incongruità della sua condotta corporea non verbale.
Infatti la persona non vedente può facilmente assumere posture e modalità mimico gestuali dissonanti, rispetto al suo comportamento verbale.
Ciò dipende spesso dalle obiettive difficoltà del contesto nel quale si svolge l’interazione comunicativa. Altre volte ciò dipende da una effettiva incompetenza del soggetto non vedente per quanto riguarda una buona condotta socio relazionale.
Il turbamento emozionale non ci fa pensare a queste cause, bensì ci spinge a credere che l’interlocutore non vedente manifesti una sorta di avversione nei nostri confronti, un’avversione che ce lo fa sentire estraneo e indesiderabile.
Da parte sua, l’interlocutore non vedente sta probabilmente facendo quello che può, ma il suo bisogno di comunicare non viene riconosciuto, poiché presenta un difetto di analogia, spiacevole da osservare e sin troppo facile da fraintendere.
Nella scuola accade spesso che l’alunno disabile visivo venga frainteso nel suo bisogno e nel suo desiderio di comunicare.
La sua condotta tattile-cinestesico-uditiva, le sue più o meno vistose difficoltà di orientamento e di padronanza dello spazio circostante, la sua relativa incompetenza prossemica e mimico gestuale rendono difficile ai coetanei ed anche agli insegnanti una comprensione realistica delle sue intenzioni.
In particolar modo la cecità impone frequentemente uno stato di vigilanza che purtroppo somiglia molto all’atteggiamento caratteristico della persona diffidente.
Occorre inoltre sottolineare che la persona non vedente, proprio perché le manca il conforto del riscontro visivo, è portata ad intraprendere la comunicazione secondo uno schema quasi esclusivamente acustico verbale, che spesso conferisce alla conversazione un andamento rigido e poco naturale.
Queste considerazioni ci consentono di comprendere quanto possa risultare utile, nel caso degli alunni disabili visivi, un’integrale educazione espressiva, allo scopo di favorire la capacità di comunicare con efficacia, oltre ai pensieri, anche le emozioni ed i sentimenti.
Conoscendo le forme espressive più efficaci ed abituali, l’alunno non vedente conoscerà meglio anche la propria vita emozionale, poiché finalmente riuscirà a presentarla in modo riconoscibile agli altri ed anche a se stesso.
Infatti tutto ciò che non viene condiviso con gli altri, ci appartiene in modo confuso e labile, poiché non possiede ancora le necessarie dimensioni della chiarezza e della misura.
D’altro canto la condizione di cecità ha bisogno di un’operazione cosmetica, con la quale possa essere presentata con prudenza e con garbo.
Senza rinunciare alla dignità della propria condizione, è opportuno che la persona non vedente apprenda i principali criteri sociali della presentabilità, al fine di suscitare minore angoscia e maggiore considerazione.
Principalmente in questo senso, Augusto Romagnoli esortava i ciechi a divenire amabili, mediante uno sforzo di intelligenza e di buona volontà.
Logicamente non si tratta di apparire vedenti, ma di saper corrispondere all’esigenza visiva dell’interlocutore, al suo bisogno di vederci simili a lui, al suo desiderio di immediatezza e di reciprocità.
3. La condivisione dell’esperienza percettiva
Un alunno disabile visivo che esplori un ambiente, sulla base dei propri strumenti di osservazione, avrebbe bisogno di condividere questa sua esperienza con qualcuno capace di riconoscere la validità del suo modo di osservare e capace inoltre di rispettare le sue osservazioni, integrandole con una descrizione verbale degli aspetti propriamente visivi.
In altri termini la descrizione degli aspetti visivi non dovrebbe mai costituire il fondamento per la conoscenza della realtà da parte dell’alunno non vedente.
Infatti così facendo ne risulta insidiato il cardine stesso della sua esperienza reale di persona.
La nostra identità personale emerge in primo luogo dal nostro modo intimo di conoscere e di rappresentare.
Conseguentemente, quando questo nostro modo intimo di conoscere e di rappresentare venga per errore subordinato a qualcosa che non ci appartiene, è la nostra stessa identità che viene posta in pericolo.
Il bambino disabile visivo ha bisogno di affidarsi alle proprie caratteristiche cognitive, poiché ciò garantisce uno sviluppo sano delle sue effettive potenzialità.
Quanti sono gli insegnanti ancora convinti che la vista sia l’unico senso capace di offrire un contatto autentico tra la persona e il suo ambiente?
Sulla base di una simile convinzione, sarà molto improbabile che il bambino non vedente possa nutrire fiducia nella propria condizione epistemica, vale a dire nei propri strumenti di conoscenza.
In simili circostanze, la sua osservazione tattile-cinestesico-uditiva tenderà ad assumere modalità e ritmi sbrigativi, talvolta furtivi e vergognosi, inquinati dal disagio, dalla sfiducia e dal sentimento dell’inadeguatezza.
D’altra parte egli sarà sempre più attento alla presentazione verbale dell’ambiente ed in particolar modo agli aspetti propriamente visivi.
Anche in lui fatalmente si farà spazio la convinzione che soltanto la vista può garantire il vero contatto con la realtà circostante e che la cecità costituisce di fatto una frattura con il mondo, colmabile soltanto attraverso la presenza di una persona vedente e ben disposta.
E’ questa convinzione che induce il soggetto privo della vista ad incamminarsi verso una forma, più o meno grave, di iperdipendenza sociale, caratterizzata soprattutto da un orizzonte di vita pletorico di comunicazione e scarso di conoscenza.
Infatti la conoscenza presuppone uno stato di “ solitudine condivisibile”, che ci consente di agire da soli, preparando il rinnovamento dell’incontro con gli altri.
Evidentemente non possiamo vivere lo stato di solitudine condivisibile senza aver maturato fiducia e gusto nell’esercizio dei nostri strumenti di conoscenza.
Osservando il comportamento cognitivo del soggetto disabile visivo, ci possiamo subito rendere conto della fiducia e del gusto con cui esercita i propri mezzi di conoscenza.
Sarà in primo luogo questa osservazione che potrà orientare la nostra funzione docente, poiché rappresenta la più significativa chiave di lettura del suo percorso di apprendimento e di sviluppo.
4. Allontanarsi e riavvicinarsi ad una persona cara
Per il bambino vedente allontanarsi da una persona cara è comunque difficile. Mentre si allontana egli cerca nello sguardo dell’altro quel tanto di approvazione e di conforto, necessari per continuare.
Voltarsi indietro per trarre nutrimento dallo sguardo fiducioso dell’altro, assume per il bambino vedente la funzione di un vero e proprio rifornimento affettivo, con il quale egli potrà trovare il coraggio e la forza di allontanarsi.
Allo stesso modo quando si tratta di riavvicinarsi alla persona cara, il bambino vedente può valutare con lo sguardo la disponibilità dell’altro ad accogliere il suo ritorno.
Bisogna dire che l’iniziativa del riavvicinamento presenta tali rischi di frustrazione, da meritare davvero una discreta prudenza esplorativa.
Tanto più è forte la dipendenza affettiva dalla persona da cui ci allontaniamo, tanto più viviamo la fase del riavvicinamento con la spiacevole emozione del pericolo, qualche volta addirittura con l’oscuro sentimento dell’irreparabile.
Se consideriamo la condizione del bambino che non vede, ci possiamo facilmente rendere conto dell’estrema difficoltà con la quale è costretto a vivere l’esperienza dell’allontanamento e del riavvicinamento ad una persona cara.
Da un lato egli tende naturalmente a stabilire rapporti affettivi di più intenso attaccamento, proprio per compensare con una maggiore vicinanza corporea la privazione del contatto visivo.
D’altro lato egli è indotto dalla sua stessa condizione ad affrontare l’allontanamento e il riavvicinamento con minore gradualità di tempi e di sfumature affettive, vivendo quindi il cambiamento con un maggiore senso di insidiosità.
Se ci pensiamo con attenzione, i momenti dell’incontro e della separazione traggono il migliore contributo dall’esperienza visiva dello sguardo reciproco.
In esso, è possibile svolgere quell’indagine rapida e preziosa che ci consente di agire con slancio e con fiducia, recuperando soggettività nella situazione di interdipendenza.
Il bambino non vedente rischia di vivere simili circostanze restando, per così dire, ancorato in una condizione di iperdipendenza, nella quale il sentimento angoscioso della perdita può paralizzare la sua fiducia , la sua autonomia e le sue iniziative.
Come può fare il bambino non vedente ad emanciparsi da questa condizione di iperdipendenza?
Egli ha bisogno di essere guidato e sostenuto a vivere molte esperienze gratificanti, tali da consolidare in lui una correlazione decisamente positiva tra le iniziative personali ed i buoni risultati.
Con il bambino che non vede, occorre curare con estrema attenzione e prontezza i momenti della separazione e dell’incontro, allo scopo di rendere sempre più consistente il suo patrimonio di buoni ricordi, in relazione con tali momenti.
Qualcuno potrebbe obiettare che una simile accuratezza educativa dovrà prima o poi scontrarsi con gli aspetti penosi e frustranti della disattenzione sociale, che a quel punto potranno risultare ancora più traumatici e nocivi.
Francamente una simile obiezione ci appare debole e confusa.
Quando infatti parliamo di accuratezza educativa, non vogliamo certamente intendere un atteggiamento di iperprotezione, tale da limitare in qualche modo la sua esperienza soggettiva.
Viceversa intendiamo sostenere la soggettività del bambino non vedente, la sua capacità di intraprendere iniziative nell’ambito di una relazione affettiva.
Il suo bagaglio di buoni ricordi relazionali potrà sostenere meglio la sua capacità di cercare tutto il bene possibile nelle relazioni umane e sociali, anche quando simili relazioni dovessero mostrare aspetti dolorosi e mortificanti.
Bisogna distinguere la validità preziosa del sostegno dalle insidie presenti nell’ iperprotezione.
Mediante l’iperprotezione l’educatore tende a limitare lo spazio di vita del bambino, magari allo scopo di evitare i rischi e le esperienze spiacevoli.
Al contrario il sostegno tende a facilitare l’esperienza del bambino, ad estendere il suo spazio di vita, a rinfrancare la sua posizione di attore e di esploratore.
I bambini non vedenti e in qualche misura anche gli adulti non vedenti, hanno bisogno di prestazioni di sostegno, per affrontare un’esistenza resa più faticosa dalle scabrose caratteristiche della minorazione visiva.
Per non risultare offensivi si tratta di capire che il sostegno deve concentrarsi intorno alle possibilità dell’alunno non vedente, rispettando in lui il difficile confronto tra il sentimento del possibile e l’esperienza del limite.
Quando la protezione e il sostegno assumono questa fisionomia civile, il soggetto disabile visivo recupera il coraggio necessario per confrontarsi con le sue limitazioni, per andare oltre e vivere da protagonista il suo faticoso ma interessante percorso di conoscenza e di partecipazione.
5. L’imitazione e il gioco simbolico
Generalmente consideriamo l’imitazione qualcosa di spontaneo, che nasce liberamente dentro l’immediatezza di una situazione, sulla base di motivi prevalentemente ludici e sociali.
Mediante l’imitazione il bambino si appropria dei fenomeni reali che più lo interessano; per così dire, ne incarna la fisionomia vivente.
In particolar modo sono i comportamenti insoliti e bizzarri che sollecitano l’imitazione del bambino ed anche quelli che destano maggiormente i suoi desideri e le sue paure.
Nel caso del bambino non vedente l’imitazione spontanea riguarda esclusivamente gli aspetti acustici della realtà circostante.
Indubbiamente l’imitazione acustica possiede un suo fascino ed una sua vivacità, ma resta pur sempre una forma parcellare d’imitazione, una rappresentazione monosensoriale del mondo.
Occorre pertanto guidare il bambino disabile visivo verso una forma più compiuta d’imitazione della realtà, con la quale egli possa conoscere meglio e rappresentare la vita del suo ambiente di appartenenza.
Del resto, quando il bambino non vedente impara ad eseguire con il proprio corpo l’imitazione di un comportamento, ne prova quasi sempre un piacere così grande che la sua imitazione diviene spontanea e addirittura esuberante.
A questo proposito è necessario comprendere che talvolta la conquista di una possibilità richiede momenti di sforzo e di crisi che il bambino tenderebbe ad evitare, senza l’aiuto energico e ragionevole dell’educatore.
Organizzando un’ eccellente capacità d’imitazione, il bambino non vedente può introdursi nelle attività caratteristiche del gioco simbolico con una favorevole e rassicurante dotazione di base.
L’imitazione infatti sviluppa, più di ogni altra cosa, le capacità di rappresentazione immaginativa, facilitando l’acquisizione di una buona autonomia espressiva.
E’ molto importante che il bambino non vedente divenga un esperto di giochi da proporre agli altri bambini, mediante efficaci ed apprezzabili esemplificazioni personali.
E’ ancora molto forte il pregiudizio secondo il quale i bambini ciechi riescono, nella migliore delle ipotesi, a realizzare esclusivamente giochi verbali e vocali.
Osservare un bambino cieco che si fa promotore di un gioco sociale di movimento, esemplificando tale gioco agli altri bambini vedenti, è ancora oggi un fenomeno molto sorprendente, che desta meraviglia e incredulità.
In questo senso la scuola moderna potrebbe fare molto per dissolvere un simile pregiudizio. Occorre aggiornare gli insegnanti della scuola materna, elementare e media circa le possibilità di adattamento dei giochi alla presenza di un alunno minorato della vista.
Questo aggiornamento potrà favorire sensibilmente l’integrazione scolastica e sociale degli alunni disabili visivi, ma certamente risulterà molto utile alla riscoperta dei giochi di gruppo nell’ambito della vita scolastica.
Soprattutto i giochi più antichi rappresentano un mirabile equilibrio di piacevolezza e apprendimento. Essi costituiscono, in un certo senso, le vitamine dell’esperienza scolastica, senza le quali i processi di apprendimento perdono la loro vitalità primitiva, assumendo una fisionomia eccessivamente tecnica.
6. La conoscenza del limite sensoriale
Spesso a scuola si avverte il pericolo di nominare la cecità, di chiamarla con il suo vero nome, come se la presenza dell’alunno non vedente dovesse mantenersi tacita, priva di commenti espliciti.
Si pensa infatti che parlare della cecità risulti comunque offensivo per l’alunno non vedente, quasi che non parlarne diminuisca il peso della sua minorazione.
Questo atteggiamento ci conduce direttamente verso la mimetizzazione della cecità, vale a dire verso una cultura delle apparenze, dove apparire vedenti è un po’ come aver recuperato la funzione visiva.
Si tratta di una finzione che di fatto toglie alla cecità il valore di condizione degna di essere conosciuta.
Mediante questa finzione, la cecità viene concretamente estromessa dalla scuola, dove, viceversa, resta l’alunno diverso ma espropriato della sua stessa diversità.
Coinvolto nella finzione, l’alunno non vedente comincia a vivere nella mente del gruppo più che in se stesso, organizzando un conflitto interiore lacerante e insolubile.
Poco a poco le circostanze reali offriranno all’alunno non vedente una percezione sempre più netta dei suoi limiti sensoriali, rendendo sempre più aspro e conflittuale il suo comportamento mimetico.
Talvolta il bambino non vedente trova in se stesso la forza di esplodere con la sua diversità, affermando disperatamente la realtà della sua condizione sensoriale.
Altre volte occorre attendere che un insegnante, dotato di maggiore realismo e serenità, comprenda che la condizione di cecità può divenire motivo di apprendimento e costituire un occasione di rinnovamento per la coscienza sociale del gruppo scolastico.
Nelle scuole speciali per ciechi la principale insidia risiedeva nel fatto che la minorazione della vista fosse l’elemento di somiglianza del gruppo di coetanei, perdendo quindi le caratteristiche della diversità.
In tali scuole il bambino apprendeva le buone abitudini per un soggetto disabile visivo, eludendo di fatto il confronto con la propria diversità sociale.
Nel contesto della scuola ordinaria l’alunno non vedente rischia ugualmente di eludere tale confronto attraverso la “soluzione mimetica”, tragica e affascinante.
In un contesto mimetico, la diversità diviene oggetto della disconferma e pertanto può esserci senza il diritto di esistere.
Dobbiamo adoperarci per capire sempre meglio che il bene del bambino non vedente consiste appunto nel confronto drammatico ma fecondo con il limite sensoriale.
Opportunamente sostenuto, il bambino non vedente può trovare in un simile confronto le forme autentiche della propria identità, equilibrando il rapporto con se stesso, con gli altri, con il mondo circostante.
Togliere al bambino la sofferenza di questo confronto, significa deprivarlo della possibilità di trovare se stesso e divenire soggetto tra gli altri e con gli altri.
Per queste ragioni possiamo dire che il bambino non vedente ha bisogno soprattutto di un amore intelligente e ragionevole, capace di includere la sofferenza e la tristezza lungo il cammino del bene possibile.
Senza questa lungimiranza sarà molto improbabile trovare una soluzione tecnico-organizzativa
in grado di garantire agli alunni minorati della vista una scuola che riconosca e corrisponda ai suoi bisogni educativi speciali.
Per quanto ci riguarda, non possiamo che perseverare nel tentativo di introdurre nella vita scolastica una migliore disposizione a conoscere la realtà degli alunni disabili visivi.
In definitiva la conoscenza implica già il confronto con il limite che deve essere conosciuto per essere poi superato. D’altra parte una scuola che migliori la sua disposizione a conoscere, è una scuola che realizza la propria identità svolgendo la sua funzione più autentica e fondamentale.