Capitolo 1 – Il bambino cieco e la sua famiglia – Per i genitori del bambino non vedente

Sommario:

c. Per i genitori del bambino non vedente

1. Introduzione

Ci dimentichiamo spesso che i genitori del bambino non vedente sono semplicemente dei genitori, simili a tutti gli altri, destinati pertanto a sbagliare in questo loro difficile compito educativo.
Non si tratta, così come potrebbe sembrare, di una chiarificazione superflua, poiché ci capita anche troppo spesso di mostrarci comprensivi verso i limiti dei genitori e di assumere in particolar modo un atteggiamento più esigente e intransigente di fronte ai genitori del bambino cieco.
Evidentemente la cecità di un figlio rende molto più difficile il compito dei genitori e più comprensibili le loro eventuali manchevolezze.
Per quale ragione pretendiamo da questi genitori, così provati da una vicenda complessa e perturbante, una quasi perfezione che neanche ci sogniamo di esigere dagli altri genitori, che generalmente vivono situazioni familiari più fluide e regolari?
Non sarà forse che li riteniamo responsabili di aver messo al mondo un figlio non vedente e quindi nel sacrosanto dovere di mettere riparo con le loro forze ad un limite che senza di loro non sarebbe divenuto concreto?
I genitori del bambino non vedente sono già fin troppo soli di fronte a questo loro problema e queste nostre facili pretese rendono il loro compito ancora più difficile e tormentoso.
Occorre viceversa costruire intorno alla famiglia del bambino non vedente una rete di solidarietà qualificata, poiché i problemi che la coinvolgono oltrepassano i confini del perimetro familiare e costituiscono una vera e propria emergenza sociale.
Una famiglia che si sente sola di fronte al proprio bambino non vedente, a meno che non possegga doti eccezionali, è destinata a commettere una serie quasi interminabile di errori educativi e a compromettere in misura più o meno grave lo sviluppo del figlio disabile visivo.
Cerchiamo pertanto di vivere i problemi del bambino non vedente con la sua famiglia, mediante una relazione di aiuto che non degeneri mai nella mancanza di rispetto e nella delegittimazione della funzione genitoriale.
Da questo clima di collaborazione e di dialogo potrà certamente scaturire un atteggiamento di osservazione, di riflessione e di ricerca che ci condurrà a comprendere insieme il bene educativo del bambino.

2. L’incontro con il consulente psicologo

Non dovremmo meravigliarci se i familiari del bambino non vedente, nel momento dell’insorgenza del suo deficit visivo, concentrano la loro attenzione e le loro aspettative intorno alle soluzioni radicali del problema, vale a dire quelle capaci di cancellarlo e di restituire la situazione precedente.
In questo senso bisogno dire che la figura dello psicologo non promette niente di buono e in qualche modo lavora per favorire una migliore conoscenza di qualcosa che i genitori non vorrebbero neanche percepire.
A questo proposito gli oculisti possono svolgere una preziosa funzione coadiuvante. Infatti mentre svolgono la loro specifica funzione professionale, possiedono l’opportunità di aiutare i genitori a capire che la consulenza di uno psicologo potrà comunque aiutarli a vivere le difficoltà presenti nella loro condizione.
Per questa ragione è auspicabile che le strutture di accoglienza per la famiglia del bambino non vedente vengano dotate di un gruppo pluridisciplinare di professionisti, capaci di intervenire insieme sui molteplici aspetti del problema.
Naturalmente il primo incontro con il consulente psicologo assume un’importanza quasi decisiva. Non si tratta di conquistare la fiducia dei genitori, poiché questo obiettivo oltrepassa di molto i limiti di un solo incontro.
Si tratta viceversa di offrire ai genitori ciò di cui hanno più bisogno, con la semplicità di chi conosce il problema nei suoi aspetti più generali ma desidera comprendere la loro situazione particolare, vale a dire la storia, le circostanze e i vissuti personali che caratterizzano la loro realtà, a prescindere da classificazioni e da collocazioni statistiche.
Quando vengono aiutati ad esprimersi, senza la pressione di un orologio e di un questionario i genitori raccontano la loro drammatica vicenda con parole e frasi più significative che, nonostante il disordine dell’esposizione, rappresentano molto bene la loro condizione reale.
In definitiva nel corso del primo incontro i genitori del bambino non vedente possono vivere finalmente il piacere di esporre la loro storia ad una persona che vuole conoscerla, per esserne partecipe e comprenderla nei suoi aspetti più profondi e indicativi.
In tali circostanze i genitori apprendono spontaneamente che la loro storia può risultare interessante, degna di essere raccontata e conosciuta.
Questa nuova consapevolezza potrà aiutarli efficacemente a percepire con maggiore attenzione i diversi aspetti della situazione e a maturare verso il figlio non vedente (ed anche verso sé stessi) una capacità di osservazione e di apprendimento.

3. La consapevolezza del rifiuto

Qui occorre subito chiarire che quando si parla di rifiuto da parte dei genitori ci si riferisce soprattutto al mancato riconoscimento del figlio ed all’effetto angoscioso di estraneità che ne consegue.
La minorazione della vista del bambino impedisce ai genitori di guardarlo come un figlio vero e proprio e di avvicinarsi a lui con la naturalezza e con la curiosità che generalmente caratterizzano il comportamento genitoriale.
Durante la gravidanza essi hanno sognato l’arrivo di un bambino sano e libero e non si rassegnano all’idea di averlo perduto. E’ questa la ragione che li spinge a cancellare in ogni modo e ad ogni costo la minorazione della vista, per ritrovare finalmente quel bambino tanto sognato e tanto desiderato.
Il più delle volte si tratta di una rifiuto quasi del tutto inconsapevole o comunque inconfessabile.
I genitori sentono il peso di tre colpe insopportabili e sono pertanto indotti a fuggire dalla propria vita interiore chiudendosi in una condotta piuttosto rigida ed automatica.
Essi avvertono oscuramente la colpa di aver generato un figlio non vedente, la colpa di rifiutarlo in quanto non vedente ed anche la colpa di essere inadeguati a confrontarsi con le sue esigenze particolari.
Francamente non è facile ad aiutarli a considerare con attenzione queste loro spiacevoli ed intime emozioni per osservarle con occhi più benevoli, come l’effetto contraddittorio e ineluttabile di una difficile situazione.
Durante questa fase dei colloqui occorre davvero saper condividere con umiltà e partecipazione la scabrosità delle loro esperienze vissute, offrendo gradualmente alla loro capacità di rappresentazione le parole per esprimere la penosità di un conflitto che appare impossibile da conciliare.
La consapevolezza e la dichiarazione del rifiuto costituiscono il primo grande passo verso un confronto più realistico con il bambino non vedente.
La mitigazione del senso di colpa, una parziale ma significativa conciliazione del figlio immaginato con il figlio reale, consentono ai genitori di assumere un comportamento riparatorio meno condizionato dalla mania di risanamento e orientato, almeno in parte, dalla prospettiva dei miglioramenti praticabili.
Non bisogna pensare che una simile evoluzione possa avvenire in forma lineare e progressiva. Essa si manifesta in forma discontinua e irregolare, tracciando accelerazioni ed improvvise regressioni, accusando periodi di stasi e decisivi recuperi di fiducia.
Naturalmente al consulente spetta di favorire questo cammino, rispettando pazientemente il suo corso ed offrendo la sua stabile fiducia come riferimento per le risorse del bambino e dei suoi genitori.
Tutte le volte che il consulente decide quali debbano essere i tempi dell’evoluzione e cerca di indirizzare con eccessive pressioni il percorso della famiglia, questo delicato processo di miglioramento rischia di venire compromesso o comunque di assumere vizi involutivi difficili da correggere.
Non di rado la consulenza viene ridotta e squalificata ad un insieme di istruzioni per l’uso, comunicate ai genitori con accentuazioni pragmatiche, qualche volta addirittura sbrigative.
Queste superficiali e inopportune sollecitazioni non aiutano certo i genitori a rinascere nella funzione di educatori del proprio bambino.
Nella migliore delle ipotesi essi verranno indotti ad assumere una sorta di funzione riabilitativa che complicherà ulteriormente la relazione genitori-figlio, compromettendo talvolta l’equilibrio del sistema familiare.
La drammatica urgenza di una situazione non può essere controbilanciata dalla fretta dell’agire. Occorre viceversa saper riconoscere gli autentici nodi del problema e scioglierli uno per volta, con prudente determinazione.

4. Il significato di un doloroso evento

Quando ci accade qualcosa di molto spiacevole, qualcosa che appare più grande di noi e che interrompe bruscamente il corso regolare della nostra esistenza, siamo indotti a cercare una ragione, una spiegazione che in qualche modo possa giustificare l’accaduto.
Domande del tipo “perché è successo proprio a me?”, “che cosa ho fatto per meritare tutto questo?”, “perché queste cose non accadono a quelli che si comportano molto peggio di me?” tormentano giorno dopo giorno la nostra mente senza produrre il minimo beneficio.
Volendo parlare in modo rigoroso, si tratta di domande che rivelano l’incapacità di confrontarsi con il mistero del vivere, con la casualità degli avvenimenti.
Vogliamo a tutti i costi inserire l’evento spiacevole in una chiara sequenza logica. Siamo disposti ad accettare anche una spiegazione opprimente e dolorosa, purché ci liberi dalla necessità di confrontarci con ciò che è misterioso ed aspetta da noi una risposta.
In un certo senso vogliamo fuggire dalla libertà di offrire noi, con il passare del tempo, all’evento spiacevole un significato capace di colorire in qualche modo il corso della nostra esistenza.
La fiducia nella possibilità di offrire un significato al mistero della vita con la nostra sensibilità e con la nostra intelligenza, ma anche con l’aiuto di coloro che ci dimostrano la capacità di comprendere e di partecipare, rappresenta il cardine attraverso il quale noi oltrepassiamo il limite degli atteggiamenti compassionevoli e dei comportamenti reattivi ed ostinati. Solo grazie ad una simile fiducia possiamo entrare finalmente in una dimensione di apprendimento per conoscere i limiti e le possibilità presenti nella condizione che siamo costretti a vivere.
Per favorire tutto questo ritengo necessario che il consulente psicologo possieda un eccellente conoscenza di sé stesso ed abbia vissuto, almeno in qualche misura, difficoltà simili a quelle dei genitori del bambino non vedente.
Infatti i genitori hanno bisogno di ascoltare parole credibili che scaturiscono da una partecipazione profonda e consapevole.
Fuori da una esperienza di intima condivisione, la pacatezza, la stabilità e la fiducia del consulente vengono percepite come l’esito scontato di una minimizzazione del problema, vale a dire come il frutto del disinteresse.
Quando i genitori cominciano a cercare un significato da offrire alla condizione del figlio non vedente, alla sua crescita ed al suo destino, la loro vita si trasforma, diviene attiva, curiosa ed interessante, poiché assume la dimensione della scoperta e della crescita comune.
In questi casi, purtroppo improbabili l’insorgenza della minorazione visiva punteggia l’inizio di una rinascita e di un cambiamento che coinvolge interamente il senso della vita.
Questi casi possono divenire un po’ meno improbabili, ma dobbiamo riuscire a formare consulenti più adeguati per questa delicata funzione.
A questo proposito vorrei dire che un consulente psicologo non vedente, proprio in virtù della propria limitazione sensoriale, sempre che abbia raggiunto il necessario livello di maturità professionale, può essere considerato come il consulente ideale per simili situazioni.
Soprattutto se coadiuvato dalla valida assistenza di un collaboratore vedente la sua può divenire una consulenza-testimonianza capace di offrire ai genitori un concreto riferimento allo scopo di percorrere con maggiore solidità le tappe evolutive che abbiamo descritto.

5. Un centro clinico-pedagogico per i genitori del bambino non vedente

La funzione del consulente psicologo presenta dei limiti insormontabili, se prendiamo in considerazione il bisogno dei genitori di essere accolti in un servizio capace di contenere il loro turbamento e di guidare la loro funzione genitoriale attraverso fatti da percepire piuttosto che parole da ascoltare.
In questi servizi, per ora quasi inesistenti, i genitori possono finalmente usufruire di uno spazio sociale e istituzionale organizzato su misura allo scopo di riattivare, sostenere e guidare la loro funzione educativa.
A questo proposito occorre chiarire che i semplici suggerimenti non sono sufficienti, poiché la famiglia deve conquistare nuove abitudini e vincere gradualmente la resistenza che la induce a conservare la tradizionale routine.
Infatti nella famiglia è molto forte il timore di perdere la propria identità. Soprattutto i cambiamenti che incidono sulla vita quotidiana e sull’organizzazione della famiglia non possono essere decisi a tavolino. Occorre favorire, viceversa, l’assimilazione del cambiamento per apprendimento spontaneo, vivendo situazioni coinvolgenti e significative, durante le quali si manifesta con evidenza il miglioramento del bambino.
La percezione dei miglioramenti ed il piacere di esserne il promotore potrà indurre i genitori a vincere la forza delle vecchie abitudini e a muoversi con fiducia verso la conquista di una diversa organizzazione.
In buona sostanza, le tappe cruciali di un simile percorso sono quattro:

1) Imparare a comunicare con il bambino non vedente, rispettando e valorizzando la sua condizione sensoriale
2) Insegnare al bambino non vedente a muoversi per conoscere l’ambiente che lo circonda, utilizzando soprattutto i suoi strumenti sensoriali e chiedendo aiuto soltanto nelle situazioni di effettiva necessità
3) Insegnare al bambino ad operare per rendersi utile nel corso della vita domestica e a divenire partecipe delle attività familiari
4) Aiutare il bambino a utilizzare la vista degli altri, allo scopo di acquisire una autonomia non esasperata dal desiderio dell’indipendenza.

Con simili presupposti educativi il bambino non vedente potrà ben presto manifestare le proprie possibilità. In particolar modo egli potrà manifestare la sua vivacità, il suo dinamismo, la sua allegria, aspetti che potranno dissolvere ulteriormente le incertezze e le esitazioni della famiglia.
La mancanza dei centri clinico-pedagogici ci obbliga a collocare anche questa funzione di guida nell’ambito della consulenza. Nella migliore delle ipotesi possiamo disporre di operatori tiflologici capaci di svolgere un servizio di assistenza domiciliare, durante la quale i suggerimenti del consulente possono concretizzarsi in esperienze pratiche guidate.
Bisogna dire però che in un simile contesto i genitori si sentono più guidati che accolti e la loro disposizione a vincere le vecchie abitudini si sviluppa in modo molto più lento e contraddittorio.
Il servizio domiciliare infatti può divenire un ottimo coadiuvante per consolidare le esperienze vissute durante l’accoglienza in un centro clinico-pedagogico.
Considerato in sé stesso il servizio domiciliare presenta molti limiti e difficoltà che spesso non ci consentono di raggiungere risultati soddisfacenti.
Qualcuno potrebbe aggiungere che in molte zone non esiste neanche il servizio domiciliare e la consulenza si dimostra piuttosto improvvisata.
Purtroppo non possiamo che confermare tale affermazione, poiché descrive semplicemente la realtà dei fatti.
Abbiamo davvero un lungo cammino da percorrere che non ci consente di indugiare nei sospiri e nei lamenti. Dobbiamo soltanto raccogliere tutte le nostre forze e procedere, poiché il cammino è comunque tracciato e non potrà che riservarci piacevoli sorprese.

6. L’integrazione del bambino non vedente nei centri di puericultura

Nei centri di puericultura imparare da piccoli ad interagire con i coetanei, a giocare insieme superando conflitti, disarmonie e incomprensioni costituisce davvero una preziosa opportunità e il fondamento di uno sviluppo sociale più fluido e regolare.
Ciononostante si tratta di una opportunità poco apprezzata nelle nostre famiglie, nelle quali i bambini, spesso da soli, vengono per così dire “goduti” dagli adulti e in particolar modo dai nonni, che nel rapporto con il bambino provano il grande sollievo di un illusorio ritorno ad una fase più giovanile.
I centri di puericultura vengono considerati, nella migliore delle ipotesi, una necessità da utilizzare soltanto quando in casa non c’è proprio nessuno che possa vigilare sul bambino tra i suoi giochi ed i suoi passatempi.
Nel caso particolare della famiglia del bambino non vedente questa tendenza è ancora più marcata, poiché generalmente questi genitori non hanno fiducia nelle capacità di accoglienza degli asili nido e d’altra parte neppure credono che il figlio possa integrarsi felicemente in un gruppo di bambini vedenti.
Essi temono l’esclusione del figlio dalle dinamiche del gruppo e la vergogna di evidenziare pubblicamente le sue limitazioni, nonché il pericolo di eventuali offese o maltrattamenti.
Di conseguenza lo tengono a casa, convinti che l’ambiente familiare costituisca comunque il luogo ideale dove crescere in pace, al riparo delle complicazione della vita sociale.
Interagire con i coetanei e vivere la socialità infantile è una vera e propria necessità per lo sviluppo del bambino non vedente.
Infatti nel rapporto con gli adulti, egli impara a vivere da soggetto continuamente vigilato e assistito.
In questo modo la sua immagine di sé si costituisce in rapporto alla presenza di un adulto benevolo e premuroso, ostacolando sensibilmente lo sviluppo della sua soggettività ed il suo processo di individuazione come persona singola, protagonista della propria esistenza.
Verso la fine del secondo anno di vita tutti i bambini accettano di buon grado un’esperienza di socialità infantile in un gruppo di coetanei al di fuori dell’ambiente familiare.
D’altra parte la presenza di figure educative garantisce a questa esperienza di socialità una funzione qualificata di controllo e di sollecitazione.
Per quanto riguarda l’inclusione di un bambino non vedente in un centro di puericultura, l’esperienza ci dice che generalmente non si presentano eccessive difficoltà.
Semplicemente i puericultori desiderano essere rassicurati e indirizzati da un consulente che sappia guidarli nella prima fase, per comprendere il comportamento e le particolari esigenze del bambino disabile visivo.
Occorre più che altro aiutare i genitori a scorgere l’importanza di una simile scelta e a considerare soprattutto che la facilità con cui il bambino si allontana verso la fine del secondo anno di vita non avranno la fortuna di sperimentarla alla fine del terzo anno, vale a dire, nel momento dell’ingresso nella scuola dell’infanzia.
Sempre sulla base dell’esperienza, possiamo affermare con convinzione che i bambini disabili visivi che hanno avuto l’opportunità di vivere una socialità infantile adeguata, manifestano una capacità di vivere con gli altri e di affermare se stessi del tutto particolare, tanto da essere riconoscibili proprio per queste loro caratteristiche.
In particolar modo giova sottolineare la loro competenza ludico-sociale che nello sviluppo infantile rappresenta il vero e proprio fondamento per una crescita armonica della persona.

6. Un buon collaboratore familiare

Un errore molto frequente che compromette l’educazione del bambino cieco in misura notevole, consiste nel concepire la sua presenza nella famiglia come soggetto debole da aiutare con benevolenza e con generosità, allo scopo di compensare i suoi limiti e la sua sofferenza.
Purtroppo anche nel contesto scolastico il bambino non vedente assume spesso questa fisionomia e diviene “oggetto di bene” da parte degli altri, punto di riferimento per esercitare le proprie virtù morali.
Tale immagine di paziente designato impedisce al bambino non vedente di conoscere le proprie possibilità e la propria utilizzabilità.
Nella migliore delle ipotesi il bambino cresce con la convinzione di essere una sorta di terminal, cui tutto è dovuto e con la pretesa che i sui limiti debbano essere vissuti e controbilanciati dagli altri.
In questo modo la sua crescita si realizza in un contesto di iperdipendenza, nella quale convivono l’imperiosità del comportamento e l’angoscia di essere lasciato solo.
Per evitare uno sviluppo così fragile e contraddittorio, i genitori del bambino non vedente possono essere aiutati a immaginarlo come un soggetto capace di collaborare e in grado di offrire le sue capacità per il buon andamento della vita familiare.
Soprattutto a partire dai tre anni di vita, un bambino disabile visivo può rendersi utile in molti modi nell’ambiente domestico e divenire partecipe delle attività familiari.
Naturalmente egli vivrà questo suo servizio in una dimensione giocosa, ma ciò non deve ingannare circa il suo impegno che sarà comunque intenso e convinto.
Lavare, pulire, riordinare saranno per il bambino non vedente attività divertenti e costruttive, durante le quali egli potrà finalmente essere uno tra gli attori del gruppo familiare e sentirsi un vero e proprio soggetto di iniziative.
Inoltre egli potrà, per apprendimento spontaneo, conoscere la sua casa nei minimi particolari, sviluppando le funzioni senso-percettivo-motorie ed anche le funzioni immaginativo-motorie.
Sarà certamente necessario indulgere su qualche manchevolezza presente nelle sue esecuzioni, affinché questo suo servizio non assuma le odiose caratteristiche di un compito da svolgere con atteggiamento ossessivo.
Occupato in questa funzione di collaboratore domestico, il bambino non vedente sarà meno coinvolto da passatempi sedentari e inoperosi, caratterizzati quasi esclusivamente da un mondo di suoni e di parole.
Devo confessare che non sono molti i genitori che ascoltano questo mio suggerimento di rendere operoso, partecipe e responsabile il figlio non vedente.
Generalmente essi sono così coinvolti nel dovere di facilitare la vita del figlio, da non comprendere il valore di tale indicazione.
A questo proposito potrebbero risultare efficaci trasmissioni televisive, durante le quali le capacità del bambino non vedente possano manifestarsi in un clima di umoristica serenità, al riparo dai sensi di colpa e dagli stati compulsivi di riparazione obbligatoria.

8. Condizioni più difficili

Quando il bambino non vedente presenta ulteriori limitazioni funzionali, il percorso dei genitori nel senso tracciato dalle precedenti argomentazioni, diviene molto più complesso, instabile e contraddittorio.
Naturalmente questo accade soprattutto perché il bambino non vedente pluriminorato appare ancora più diverso da quel bambino desiderato e sognato durante l’attesa.
I genitori avvertono più intensamente la necessità di una riparazione radicale e si dimostrano molto meno disponibili ad accogliere piccoli e graduali miglioramenti che in buona sostanza non cambiano la realtà della loro situazione.
Pertanto il periodo durante il quale i genitori si affannano a cercare soluzioni più o meno miracolistiche, diviene molto più lungo e più carico di emozioni ingovernabili che non consentono davvero un pacato colloquio con il consulente psicologo.
In una seconda fase accade spesso che i genitori concentrano la loro attenzione e le loro illusioni su un particolare itinerario riabilitativo e tendono a trasformare la casa in un centro di riabilitazione.
In questo modo essi percepiscono il bambino come un vero e proprio oggetto da riparare, soprattutto in alcune funzioni considerate più significative e normalizzanti nel contesto socioculturale di appartenenza.
Inoltre questa frenesia riabilitativa induce i genitori ad introdurre le medesime tecniche riabilitative nel contesto scolastico, trascurando il valore e il significato delle attività non precisamente finalizzate in senso funzionalistico.
Tutto questo può comportare forti tensioni fra scuola e famiglia e conseguenze conflittuali che certamente non favoriscono lo sviluppo del bambino e la piacevolezza della sua vita quotidiana.
In questi casi occorre essere molto prudenti e non accettare le dinamiche alienanti della conflittualità.
Occorre innanzitutto rispettare la difficile condizione dei genitori e costruire una rete di solidarietà nella quale essi possano sentire un po’ meno il peso insopportabile della solitudine e della colpa.
Accogliendo la loro rabbia e la loro esasperazione, possiamo forse aiutarli a comprendere che il figlio ha più che altro bisogno di essere accolto e riconosciuto nella sua realtà di bambino e nel suo diritto di conoscere il volto piacevole della vita, al di là dei suoi limiti funzionali.
Quando ci riesce di conseguire questo importante obiettivo, le cose si semplificano ed anche la prassi riabilitativa viene umanizzata in una prospettiva più rispettosa della vita umana e dei suoi ingredienti fondamentali.
Infatti la gioia e la sofferenza sono i principali colori della nostra esistenza quotidiana e costituiscono il più significativo riferimento nei dilemmi del vivere insieme.
Di frequente ci capita di fuggire dalla sofferenza e questa fuga ci impegna così tanto da impedirci la ricerca della gioia.
Per questa ragione è necessario imparare a soffrire con i genitori per avere il tempo e lo spazio di scorgere il bene comune possibile che ci lega alla vita del bambino.
Nelle situazioni migliori la presenza, il comportamento e la crescita di un bambino non vedente pluriminorato possono indurre un profondo cambiamento nella vita della sua famiglia ed anche nella vita di tutti coloro che si occupano della sua educazione.
Nei suoi desideri, nelle sue esigenze, nelle sue paure possiamo infatti riscoprire un senso della vita più consistente e radicale. Possiamo liberarci dalla confusione tra gioia e dominio, dissolvendo così le angustie che derivano da progetti troppo vincolati dal culto della competizione e della graduatoria.
In definitiva dovremmo smetterla di considerare un soggetto con deficit funzionali una forma di umanità mancata. Impariamo viceversa a riconoscere in lui una manifestazione di umanità capace di ricondurci con i suoi limiti alla semplicità del vivere ed alla capacità di convivere.