RIFLESSIONI TIFLOLOGICHE IN PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA
Mario Mazzeo
[Abstract] Alcune lezioni tenute da Mario Mazzeo alla Scuola di Metodo “A. Romagnoli” di Roma negli anni 1979/1980 si concentrano sulle problematiche comunicative determinate dalla presenza di soggetti con disabilità visiva.[fine abstract]
Introduzione
Il fotografo dell’invisibile: quattordici scritti di Mario Mazzeo
Sergio Basciani
Occasionalmente, mentre mettevo ordine tra i documenti del mio studio, ho ritrovato ingiallite e vecchie fotocopie, ormai quasi illeggibili, relative al periodo in cui frequentai la Scuola di Metodo per non vedenti “A. Romagnoli” di Roma, negli anni 1979/80.
Nello scorrere con gli occhi lo scritto di quelle parole sono tornate alla memoria immagini ed emozioni di quel periodo, vissuto all’interno dell’istituto come educatore.
Furono anni splendidi, non solo per l’esperienza con gli amici corsisti che incontrai, non solo per l’aria culturale della capitale che mi trovai a respirare, ma soprattutto per i docenti che ebbi la fortuna di avere.
Insegnanti come Enrico Ceppi, Rina Gioberti, Silvestro Banchetti, Mario Mazzeo, Costanzo Capirci, hanno rappresentato una vera e propria “scuola di pensiero” ed hanno avuto l’innegabile merito di delineare in maniera chiara e definita la personalità del corso biennale di specializzazione di quel periodo, orientandone i contenuti formativi in termini di significatività e pregnanza educativa, incidendo così sulla mia formazione di studente, allora non ancora iscritto all’università.
Vecchie fotocopie, dunque, che decisi, terminato il corso, di conservare, in quanto più di altre erano state in grado di farmi comprendere aspetti importanti legati alla disabilità visiva, in relazione ad aspetti nodali che vincolano la percezione soggettiva della problematica alla relazionalità comportamentale e dialogica della persona.
Erano le fotocopie delle lezioni del compianto prof. Mario Mazzeo, allora docente nel corso di Antropologia Culturale.
Nello scorrere nuovamente la lettura di quei testi sono riaffiorate intatte alla memoria le emozioni che ebbi quando quegli argomenti furono oggetto di studio durante le lezioni.
In più di una circostanza ho avuto modo in seguito di incontrare Mario, soprattutto in convegni, seminari, dibattiti e corsi di formazione, ma la sua piena competenza non aveva modo di presentarsi così come alle lezioni del Corso di Specializzazione.
Le sue erano infatti caratterizzate da un’unica capacità di coinvolgere gli studenti sugli argomenti trattati, portandoli alla comprensione di concetti complessi in modo piano e lineare: di questa mirabile competenza se ne trovano i segni negli argomenti delle lezioni che di seguito riportiamo, anche se in modo diverso rispetto alle trattazioni teoriche che venivano svolte.
Le dispense che ci proponeva come studio delle lezioni erano (e sono) di grande particolarità: si trattava di chiarire le dinamiche latenti e sottostanti, proprie di distorsioni interpretative e dinamiche conflittuali, all’interno dei rapporti comunicativi tra gli individui, spesso partendo da contesti innescati dalla presenza della disibilità visiva.
Mario Mazzeo, grazie ad una proprietà e chiarezza inusuali del linguaggio, alla modalità di articolazione del pensiero, ad una pressoché perfetta capacità di sintesi, riusciva a mettere a fuoco concetti in modo “ fotografico”.
Il dischiudersi di rappresentazioni dal vago ed indefinito ad una piena limpidezza conoscitiva ingenerava nell’ascolto, nel dialogo o nella lettura delle sue parole, una reazione emotiva di incredulità e di soddisfazione, di esaltazione anche in quel raggiungimento, insieme ad un contemporaneo dissolversi dell’ansia dell’indefinibile affrontato.
Quegli insegnamenti non furono utili solo a comprendere la natura della disabilità visiva o delle disabilità altre, ma i contesti di relazione problematici della più comune quotidianità ed avevano un elevato grado di generalizzabilità e di trasferibilità.
In ogni sua lezione (gli scritti sono in tutto quattordici: si riportano qui le lezioni dalla decima alla quattordicesima, particolarmente interessanti) il discorso appare puntuale ed avvolgente, animato da una disposizione analitica che insegue il proprio referente sino ad aderirvi, il più possibile senza residuo; quando si è consumata la fusione, intellettuale ed emotiva ad un tempo, la tensione nel testo pare attenuarsi, per lo spazio di tempo necessario ad esplorare, circoscrivere, definire, per poi riprendere, con rinnovato vigore conoscitivo, ulteriori dinamiche psico-espressive.
Mario riusciva così a strappare territori semantici al cono d’ombra del non sapere, o alle nebbie del senso comune, dominato dal punto di vista e dalla logica, oltre che dal linguaggio, di una superficiale quotidianità.
Vorrei avere l’occasione, in questo ricordo, di ringraziarlo per quanto è riuscito a darci, ed allo scrivente in modo particolare, mettendo a disposizione di tutti gli scritti inediti di quelle mirabili lezioni di Antropologia Culturale.
La minorazione visiva nella circolarità della comunicazione.
La comunicazione scaturisce dall’incontro interpersonale e si fonda sulla reciprocità interattiva di comportamenti significativi che presuppongono un comune sentimento di relativa somiglianza.
L’incontro si realizza mediante un’esperienza di sincronizzazione, nel corso del quale ciascuno dei comunicanti manifesta le proprie intenzioni e risponde alle presunte intenzioni dell’altro.
Evidentemente si tratta di un processo circolare di messaggi e di interpretazioni, entro il quale appare impossibile delineare in modo univoco una sequenza di cause e di effetti.
La simultaneità espressiva del medesimo segnale rafforza il comune sentimento di somiglianza e di reciprocità, consolidando nei comunicanti la fiducia di condividere il medesimo sistema di riferimento segnaletico.
In questo senso la reciprocità dello sguardo rappresenta la modalità più efficace nell’incontro interpersonale proprio in quanto consente immediatamente un’esperienza simultanea di “speculare reciprocità”.
L’incontro oculare intensifica ed accelera il processo di sincronizzazione promuovendo direttamente e inevitabilmente l’interazione significativa dei comportamenti soggettivi.
L’assenza di reciprocità oculare ostacola sensibilmente l’insorgenza dell’incontro simultaneo e complica il processo di sincronizzazione accrescendo nei comunicanti il timore dell’estraneità.
La simultaneità dello sguardo favorisce per altro la regolazione dell’alternanza intersoggettiva dei messaggi verbali e consente un facile recupero intuitivo della reciprocità nelle fasi dissonanti della comunicazione. Soprattutto quando i comunicanti non possono utilizzare il contatto fisico, la mancanza della reciprocità visiva intensifica i pericoli del fraintendimento e genera frequentemente processi disarmonici e frammentari che talvolta mortificano l’entusiasmo espressivo e le motivazioni di socievolezza.
La minorazione della vista può pertanto costituire un ostacolo rilevante nei processi di comunicazione, soprattutto quando provoca intense reazioni emozionali che alimentano il sentimento della diversità.
Un interlocutore emozionato può concentrare la propria attenzione percettiva sulla cecità della persona che non vede e ricevere dal suo volto una spiacevole sensazione di alienità impenetrabile, derivante dalla mancanza di reciprocità oculare.
Una simile osservazione della cecità può indurre l’interlocutore a chiudere gli occhi e a tentare spontaneamente un recupero del sentimento di somiglianza attraverso una sperimentale simulazione di cecità.
Si tratta di una reazione impulsiva di avvicinamento emozionale che confonde ingenuamente la condizione di cecità con la condizione di chi percepisce transitoriamente ad occhi chiusi.
Questa simulazione non concorre di fatto a scorgere nel volto della persona che non vede i segni della reciprocità espressiva che viceversa possono essere recuperati mediante un’osservazione serena e libera da irrigidimenti emozionali.
D’altra parte occorre sottolineare che la frequente povertà mimica e gestuale dei privi della vista favorisce nell’interlocutore la spiacevole sensazione di impenetrabilità ed ostacola non poco i processi di sincronizzazione.
Quando la persona che non vede dispone di una soddisfacente mobilità e scioltezza espressiva, i suoi messaggi mimici e gestuali possono facilmente risolvere l’imbarazzo e l’ansietà nella conversazione e promuovere rapidamente una comunicazione fluida a intuitiva.
Soprattutto quando la persona che non vede sa dirigire espressivamente il proprio sguardo verso l’interlocutore, rispettando la normale postura cinesica del rapporto faccia a faccia, la comunicazione interpersonale non presenta difficoltà rilevanti e può acquisire una soddisfacente sincronicità.
La competenza comunicativa della persona che non vede.
La persona che non vede predilige spontaneamente le manifestazioni espressive della vocalità e tende a concentrare la propria attenzione percettiva prevalentemente sul contenuto verbale della conversazione.
L’intonazione vocale costituisce uno strumento molto efficace per articolare ed accentuare il significato delle parole utilizzate e generalmente consente una sufficiente comprensione dei messaggi.
Ciònonostante la scarsità dei segnali mimico-gestuali mortifica le esigenze di reciprocità oculare dell’interlocutore vedente e favorisce una comunicazione caratterizzata dal confinamento delle posizioni soggettive.
Trascurando l’utilizzazione dei segnali mimico-gestuali la persona che non vede ignora praticamente la funzione visiva dell’altro e manifesta nei suoi confronti una considerazione inadeguata ed implicitamente egocentrica. L’interlocutore vedente percepisce l’implicita negazione della propria funzione visiva e può facilmente reagire riducendo reciprocamente la propria partecipazione espressiva.
D’altra parte una scarsa espressività mimico-gestuale favorisce una postura corporea indiretta e sfuggente che di fatto ostacola la frontalità speculare della comunicazione faccia a faccia.
Occorre inoltre osservare che una postura corporea sfuggente comporta effetti nocivi sulle qualità dell’emissione vocale limitando e modificando la sonorità significante delle parole.
Ciò comporta generalmente una comunicazione incongrua nella quale il significato verbale appare disarticolato dalle manifestazioni non verbali.
Tale disarmonia produce incertezza e disagio intensificando negli interlocutori sensazioni oscillanti e contraddittorie che talvolta producono il desiderio di concludere frettolosamente la conversazione.
Queste brevi considerazioni consentono di affermare che la frequente noncuranza dei privi della vista verso le aspettative di reciprocità dell’interlocutore vedente costituisce la fondamentale menomazione della loro competenza comunicativa e segnala un’insufficiente socialità del loro comportamento linguistico.
Occorre comunque precisare che la persona che non vede può conoscere e acquisire le modalità espressive della comunicazione faccia a faccia soprattutto quando la mimica del suo volto e la vitalità dei suoi gesti vengono sollecitati e valorizzati nel suo ambiente sociale di appartenenza quotidiana.
Per accettare l’interazione espressiva con la funzione oculare dell’altro la persona che non vede deve prima conoscere e gustare gli effetti benefici di un’attenzione visiva amorevole quanto esplicita.
Un’esperienza piacevole e propizia dello sguardo sollecita l’acquisizione di un comportamento mimico-gestuale più attivo e vivace.
Viceversa molti ciechi temono l’esperienza dello sguardo dell’interlocutore perché ne conoscono quasi esclusivamente gli effetti ansiogeni e imbarazzanti.
È necessario aggiungere che il privo della vista può sviluppare la propria vitalità espressiva soprattutto attraverso esperienze di comunicazione caratterizzate dalla prossimità corporea e dalla utilizzazione significativa del contatto fisico.
In questo senso ancora una volta le convenzioni del costume vigente osservano i processi di apprendimento della persona che non vede in quanto privilegiano una compostezza posturale che riduce notevolmente le occasioni di interazione corporea.
Inoltre il contatto fisico viene quasi esclusivamente considerato entro le prospettive dell’esperienza specificatamente personale e rischia così di smarrire la sua tradizionale dimensione semantica.
Una compostezza rigida devitalizza e squalifica il carattere affettivo e creativo della comunicazione umana e in particolar modo offende la sensibilità di partecipazione sociale dei minorati della vista.
La comunicazione della madre con il bambino cieco.
L’esperienza di reciprocità oculare costituisce una sollecitazione di cardinale importanza nello sviluppo della relazione madre-bambino, in quanto promuove la sincronizzazione dei loro segnali di socievolezza e potenzia la coesione affettiva della loro comunicazione.
Durante le quotidiane esperienze di allattamento il bambino e la madre comunicano intensamente attraverso lo sguardo alimentando le rispettive sensazioni di reciproca appartenenza.
La reciprocità dello sguardo conferisce ai vissuti di appartenenza una precisa fisionomia speculare mediante la quale il bambino e la madre si confondono spontaneamente nella medesima identità.
L’esperienza di amorevole confusione rappresenta la base propulsiva della relazione madre-bambino in quanto favorisce i processi conoscitivi per una reciproca differenziazione, consentendo una progressiva e graduale liberazione dalla comune dipendenza.
Il soddisfacimento del comune bisogno di attaccamento coesivo facilita una graduale modificazione dell’interdipendenza iniziale verso una prospettiva di crescente intersoggettività, caratterizzata da comportamenti maggiormente autonomi e creativi.
Una simile condizione di base consente al bambino di vivere attivamente l’eventuale assenza della madre e di sviluppare curiosità ed interesse nei confronti delle molteplici caratteristiche della realtà circostante.
Una solida interiorizzazione della figura materna permette al bambino di stabilizzare il proprio sentimento di appartenenza e di acquisire uno stile cognitivo di partecipazione operativa.
La cecità introduce nella relazione madre-bambino un elemento di estraneità ed una sensazione di assenza che possono ostacolare notevolmente la realizzazione del comune sentimento di appartenenza, ritardando la sincronizzazione dei reciproci segnali di socievolezza e intensificando le rispettive emozioni di ostilità.
La madre può subire l’assenza della reciprocità oculare e viverla come una privazione della possibilità di comunicare intuitivamente con il proprio bambino assumendo un comportamento incerto e timoroso.
Il timore e l’incertezza concorrono a promuovere nella madre uno stato di irrigidimento e di preoccupazione che nuoce alla realizzazione di un soddisfacente attaccamento coesivo.
La madre può ricercare il contatto corporeo mediante comportamenti eccessivamente premurosi e conflittuali senza ottenere la desiderata sensazione di speculare reciprocità.
Da parte sua il bambino può cercare spontaneamente una pratica di accostamento e di comunicazione secondo modalità specifiche che facilitano nella relazione pericolosi fraintendimenti.
Ad esempio il bambino può rivolgersi alla madre porgendo un orecchio e mortificare così l’esigenza materna di specularità frontale nonché la sua ricerca di reciproco sorriso.
In questo caso occorre che la madre sappia riconoscere l’impulso di accostamento espresso dal bambino e corrispondere al suo gesto con prontezza consapevole, determinando così la sincronizzazione dei segni di socievolezza.
Una recuperata comprensione dei segnali specifici del bambino può facilmente consentire alla madre di rivalutare la propria intuitività sollecitando il suo entusiasmo e la sua personale iniziativa nella comunicazione.
La conquista dell’intimità vocale e di una corrispondenza di messaggi corporei condurranno la madre e il bambino a recuperare pienamente una comune sensazione di speculare reciprocità.
Occorre tuttavia sottolineare che la madre può avere bisogno di essere aiutata in questa delicata operazione di recupero analogico della reciprocità affettiva da una persona competente ed accorta che sappia sostenerla e sollecitarla a scorgere nel comportamento del bambino i segnali della socievolezza affettiva.
L’assenza di tale contributo può infatti determinare una relazione madre-bambino disarmonica e conflittuale caratterizzata da una costante e contraddittoria ricerca dell’attaccamento, persistente quanto disperata.
Le risposte familiari di reazione nei confronti del bambino cieco.
Le difficoltà presenti nello sviluppo della relazione madre-bambino possono essere aggravate da una risposta di autoconfinamento difensivo da parte dei rimanenti familiari, tacitamente alleati ad evitare il disagio derivante da una comunicazione diretta con il bambino che non vede.
La cecità può divenire una vera e propria barriera psicosociale che separa il bambino dai suoi familiari e rafforza l’ansietà e la disarmonia del suo rapporto con la madre.
Tale rapporto può assumere una pericolosa fisionomia di attaccamento morboso e ambivalente che accresce nella madre colpevolizzanti e dolorose sensazioni di personale inadeguatezza.
La madre può sentirsi trascurata e incompresa di fronte ad un compito eccessivamente frustrante e nutrire una lacerante esperienza interiore di rifiuto delle proprie responsabilità, assumendo comportamenti di passiva depressione melanconica.
Queste circostanze possono determinare un complessivo atteggiamento familiare di rinuncia della propria funzione educativa e promuovere la tendenza a delegare le proprie responsabilità verso istituzioni scolastiche qualificate specificamente.
In questi casi la famiglia accompagna il bambino nell’istituto per i ciechi manifestando più o meno esplicitamente un atteggiamento di “fiduciosa deresponsabilizzazione”.
Naturalmente il bambino cieco vive nella propria istituzionalizzazione un’esperienza mortificante di rifiuto affettivo, densa di effetti nocivi e destabilizzanti.
In altre circostanze i genitori possono reagire al disagio derivante dalla comunicazione con il bambino cieco attraverso un comportamento eccessivamente protettivo impegnato principalmente a soddisfare le sue esigenze propriamente fisiologiche e tutelarlo nelle situazioni caratterizzate da una presunta pericolosità.
Mediante un’eccessiva protezione i genitori tentano di assolvere con premura la loro funzione educativa e intendono spontaneamente compensare la loro scarsa competenza comunicativa nei confronti del bambino che non vede.
Di fatto l’atteggiamento iperprotettivo ostacola sensibilmente lo sviluppo psicomotorio del bambino e limita gravemente il campo delle sue esperienze personali compromettendo spesso i suoi processi cognitivi di crescita autonoma.
La costante premura dell’ambiente familiare non consente al bambino di conoscere e ponderare i propri desideri né di accettare il rischio e la responsabilità dell’impegno individuale.
Il bambino iperprotetto si sente oggetto di continue attenzioni che presuppongono un’estrema sfiducia nelle sue possibilità soggettive e squalificano la sua dignità personale sottolineando la necessità della tutela genitoriale.
In terzo luogo il disagio della comunicazione può favorire nei genitori un comportamento di eccessiva sollecitazione funzionale, finalizzata a verificare frettolosamente le ansiose aspettative di sviluppo nei confronti del bambino cieco.
Generalmente simili sollecitazioni non si dimostrano commisurate alle reali capacità del bambino né corrispondono alle sue personali motivazioni.
Per altro il bambino percepisce l’urgente aspettativa dei genitori e vive intensamente il pericolo del rifiuto affettivo.
Una responsabilizzazione eccessiva alimenta nel bambino il terrore dell’insuccesso nelle prove di abilità e lo costringe a irrigidire le proprie qualità caratteriali.
In questi casi il bambino cieco vive la propria crescita nella prospettiva di corrispondere compiutamente alle aspettative dei genitori ed organizza in tal senso una tendenza perfezionistica, pervasa da sentimenti conflittuali di logorante ostinazione.
I comportamenti qui descritti riassumono brevemente le modalità più frequenti della reazione al disagio di una comunicazione disafettiva dei familiari con il bambino cieco e consentono di
comprendere l’importanza e l’opportunità di sostenere la famiglia medesima mediante un valido servizio di consulenza psicopedagogia.
L’evoluzione patologica dello sviluppo del bambino che non vede nel sistema familiare.
In alcune famiglie la diversità del bambino che non vede viene automaticamente ignorata attraverso inconsapevoli meccanismi di rifiuto cognitivo che di fatto esorcizzano l’incertezza e la problematicità provenienti dal disagio della comunicazione.
Il meccanismo di negazione del disagio si realizza secondo modalità preriflessive di mistificazione della realtà mediante le quali vengono eliminate magicamente le complicazioni e le difficoltà derivanti dalla cecità del bambino.
Si tratta di una vera e propria simulazione collettiva, di un tragico gioco senza fine, proteso a mascherare il disagio e a cancellare le manifestazioni specifiche della condotta espressiva del bambino cieco.
Tali famiglie presentano un sistema di relazioni interpersonali particolarmente rigido, caratterizzato da abitudini tacite e indiscutibili, assolutamente non predisposte ad accogliere eventi che richiamano l’esigenza di profondi cambiamenti.
Il presagio di un possibile cambiamento induce in queste famiglie un’intima reazione di terrore e provoca una complice resistenza di tutti i familiari che tentano di neutralizzare la carica innovativa proveniente dall’evento indesiderato.
La cecità del bambino costituisce indubbiamente un evento che richiama l’esigenza di radicali modificazioni delle abitudini familiari e che soprattutto esige pratiche di comunicazione più esplicite e spregiudicate nonché la capacità di valorizzare le diversificazioni individuali.
In particolar modo i problemi di comunicazione conseguenti alla presenza del bambino cieco possono essere neutralizzati dai familiari trattando il bambino come se ci vedesse ed affermando surrettiziamente che si tratta di un bambino perfettamente normale.
Così facendo i familiari eludono il problema della minorazione visiva del bambino, consacrando la propria funzione visiva al suo servizio per compensare sistematicamente le sue continue difficoltà di adattamento socioambientale.
In altre parole i familiari non si limitano a tutelare premurosamente il bambino nelle circostanze ritenute rischiose, ma sostituiscono con la loro presenza iperattiva il suo personale sforzo di adattamento operativo, interpretando arbitrariamente i suoi bisogni e le sue aspettative.
Evidentemente in questo modo i familiari negano di fatto al bambino la dignità di rappresentare e di esprimere la propria posizione soggettiva e gli impediscono di sviluppare le sue funzioni vitali compromettendo l’autonomia della sua crescita individuale.
In simili condizioni il bambino organizza un comportamento parassitario e gravemente ipofunzionale, che spesso presenta un rapido e preoccupante decorso patologico, caratterizzato da una progressiva disabilitazione esistenziale.
La condizione parassitaria potenzia il disagio del bambino e lo conduce verso uno stato di crescente malessere aggravato prevalentemente dalla sua minima competenza comunicativa.
Occorre infatti considerare che tali condizioni impediscono innanzitutto al bambino che non vede di maturare una valida presenza significante nel contesto della comunicazione familiare e frequentemente determinano un’involuzione artistica del suo comportamento espressivo.
Paradossalmente l’autismo del bambino cieco consente ai genitori di eludere definitivamente il problema della comunicazione e di ribadire il proprio atteggiamento di autonoma interpretazione delle sue aspettative confermando la propria funzione vicariante.
L’iperfunzione attiva dei familiari controbilancia e stabilizza la crescente invalidità esistenziale del bambino cieco limitando progressivamente le probabilità di una possibile e opportuna inversione del fenomeno.
I genitori possono in questi casi chiedere l’intervento dello specialista per curare i sintomi psichiatrici presenti nel bambino senza rendere conto che un eventuale miglioramento della sua condotta tenderebbe a riprodurre i problemi eliminati in quanto si riprodurrebbe la necessità di un recupero della comunicazione intersoggettiva.
La prospettiva di considerare il bambino cieco come un valido interlocutore, nonostante la sua diversità, rinnova nei familiari una spontanea resistenza oppositiva che pone allo specialista delicati problemi di strategia terapeutica.
L’evoluzione sintomatica della condotta del bambino cieco rappresenta infatti il segnale di un disagio dell’intero nucleo familiare che si polarizza mimeticamente intorno alla minorazione visiva mediante un comportamento iperattivo e vicariante; conseguentemente un’eventuale terapia deve poter comprendere l’intero nucleo familiare allo scopo di consentire l’apprendimento delle capacità necessarie per accettare una prospettiva di radicale cambiamento.
Mario Mazzeo