Capitolo 4 – La consulenza alla famiglia – La cecità, una condizione di complesso equilibrio

Sommario:

b. La cecità, una condizione di complesso equilibrio

1. Osservazioni preliminari
I servizi di consulenza e di orientamento, così come oggi vengono generalmente rivolti ai soggetti non vedenti ed ipovedenti, presentano più che altro la tendenza ad agire e a riparare i danni della situazione, secondo schemi operativi e atteggiamenti poco predisposti ad accogliere e ad ascoltare la persona disabile.
La persona che non vede richiede una consulenza poiché ha bisogno di essere ascoltata e capita, per avere poi la possibilità di capire le contraddizioni e la complessità della propria condizione.
L’ascolto della persona disabile dovrebbe essere considerato come un processo, nel corso del quale un insieme confuso e disordinato di vissuti esperienziali assume lentamente le caratteristiche di un disegno mentale, di una rappresentazione rinnovata del proprio sé.
Un simile processo, proprio perché trova la sua origine in una esperienza traumatica e in una alterazione vissuta come essenziale, presenta naturalmente tempi e ritmi molto variabili, in rapporto con le capacità di elaborazione e di risposta presenti in ciascun soggetto.
I principali aspetti che fondano la complessità dialettica della condizione di cecità possono essere elencati nel modo seguente:
a. il desiderio di vedere
b. il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale
c. la qualità dell’esperienza quotidiana del proprio limite sensoriale
d. la qualità della risposta all’insorgenza della minorazione nei suoi aspetti propriamente funzionali.
Questi quattro aspetti fondamentali costituiscono le linee di evoluzione, ma anche le linee di involuzione del percorso di una persona di fronte alla sua limitazione visiva.

2.   Il desiderio di vedere
L’ingenuità del senso comune ci indica l’opportunità, talvolta addirittura la necessità, di reprimere il desiderio di vedere della persona non vedente, quasi che la presenza viva e cosciente di un simile desiderio possa lacerare irreparabilmente la sua esperienza e la sua coscienza.
Per converso si sta facendo strada anche la tendenza a soddisfare illusoriamente il desiderio di vedere della persona non vedente, attraverso esperienze suggestive, durante le quali il soggetto privo della vista costruisce, si fa per dire, prodotti significativi dal punto di vista visivo, come ad esempio disegni con le dita, fotografie, effetti luminosi, etc.
In entrambi i casi si tratta di atteggiamenti e di esperienze che non facilitano il confronto della persona non vedente con il desiderio di vedere, poiché nel primo caso si tende a mortificarlo e nel secondo si tende ad alimentare le fantasie di recupero della funzione visiva.
Forse giova precisare che non riteniamo opportuno che il desiderio di vedere divenga una presenza costante nella coscienza della persona che non vede. Sia la repressione di tale desiderio, sia le fantasie di recupero della funzione visiva costituiscono una comprensibile e salutare valvola di fuga da una realtà che talvolta può assumere un volto eccessivamente penoso e frustrante.
Riteniamo viceversa che tale valvola non possa opportunamente costituire una forma evolutiva di confronto con il desiderio di vedere.
Per facilitare un simile confronto occorre comunque saper accogliere, nella sua drammaticità, la tristezza implicita in un desiderio legittimo che non può essere soddisfatto, perlomeno nella sua reale ed immediata concretezza.
Soprattutto quando viene compresa ed accolta dalle persona che ci sono vicine, la tristezza ci consente di pensare e di promuovere un’evoluzione metaforica del desiderio, nella prospettiva di soluzioni concrete ma simboliche, capaci comunque di convogliare la vivacità e l’energia del desiderio originario in esperienze reali che senza restituirci la funzione visiva, ci offrano il piacere di una rinascita della nostra integrità.
Quando il desiderio di vedere non si incammina lungo i sentieri creativi della concretezza simbolica, esso è destinato a vivere la parte più consistente di sé durante l’esperienza onirica e l’esperienza fantastica, producendo effetti più o meno nocivi sull’equilibrio personale del soggetto non vedente.
E’ purtroppo frequente osservare in un soggetto non vedente atteggiamenti e comportamenti che rivelano vistosamente il suo bisogno di ancorarsi ad appuntamenti mistico-sanitari o mistico-religiosi.
In simili circostanze la persona non vedente organizza due esperienze quotidiane di base, diverse e complementari.
Da un lato, un’esperienza quotidiana sfiduciata e depressa, d’ altro lato fantasie quotidiane di puro desiderio, quasi del tutto svincolate, “absolute”, dai nessi causali del vivere ordinario.
Per altro il desiderio di vedere può concretizzarsi anche nel tentativo e nello sforzo di apparire vedenti. In questo caso il dissidio tra realtà e fantasia procede oltre una semplice relazione di complementarità, assumendo le caratteristiche vere e proprie di un tragico paradosso, nel quale la finzione alimenta, allo stesso tempo, la fantasia di recupero della funzione visiva e l’angoscia della minorazione.
3.  Il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale
Nonostante il rifiuto di conoscere presenti con evidenza tutta la sua negatività, è importante chiarire e sottolineare che anche questo rifiuto può svolgere una funzione considerevole nel percorso evolutivo di adattamento della persona non vedente di fronte alla propria condizione di cecità. A questo proposito dobbiamo subito considerare che la perdita della vista possiede una valenza affettiva che risulta per molti versi preponderante, se considerata in rapporto con gli effetti propriamente sensoriali.
In questo senso la perdita della funzione visiva può essere verosimilmente paragonata alla perdita di un contesto affettivo, di persone e cose molto care.
Una simile esperienza di perdita ha bisogno anche di una risposta di rifiuto cognitivo, poiché in questo modo la persona può prendere coscienza della nuova e difficile realtà secondo tempi e modi commisurati alle sue possibilità di rispondere con significato e con equilibrio.
Pertanto il rifiuto di conoscere merita ascolto, rispetto e pieno riconoscimento di legittimità.
Trattato con benevolenza e con intelligenza, il rifiuto di conoscere avrà semplicemente la funzione di conferire al processo di adattamento un andamento calibrato, al riparo dalle frenesie e dalle fughe in avanti della volontà.
Viceversa, se trattato male con atteggiamenti di opposizione o di squalifica, il rifiuto di conoscere potrà favorire l’organizzazione di comportamenti ostinati e negativi, con i quali la persona non vedente potrà difficilmente orientarsi lungo i meandri della sua complessa condizione.
Da un punto di vista propriamente scolastico, il rifiuto di conoscere dovrebbe essere considerato come un vero e proprio disturbo dell’apprendimento e conseguentemente trattato con la necessaria attenzione e cura.
Si tratta di promuovere una vera e propria riattivazione della disposizione ad apprendere, che generalmente ha bisogno di una prima fase di contenimento affettivo, durante la quale l’alunno esperisce esclusivamente la buona disposizione dell’educatore nei suoi confronti.
In una seconda fase l’alunno riesce a dichiarare o comunque ad esprimere il proprio rifiuto di conoscere, che in tal modo perde l’originaria rigidità ed assume una fisionomia più flessibile ed intermittente.
In una terza fase il rifiuto di conoscere diviene compatibile con la conoscenza della propria condizione sensoriale, assumendo più che altro la fisionomia di un atteggiamento di non rinuncia al superamento dei propri limiti sensoriali.
Con il tempo tale atteggiamento potrà addirittura divenire sinergico e complementare alla conoscenza dei propri limiti.
Infatti la coscienza dei limiti e la non rinunciabilità di un superamento dei limiti medesimi rappresentano la forma più adulta di una coscienza dove il realismo e la tensione ideale riescono a trovare un’efficace e serena coniugazione.
4.  La qualità dell’esperienza quotidiana del limite sensoriale.
Quando ci riferiamo alla condizione di cecità di una certa persona, non possiamo prescindere in alcun modo dalle circostanze psicosociali e socioculturali, nelle quali tale condizione personale vive la sua esistenza quotidiana.
In altri termini le abitudini dell’ambiente di appartenenza, i suoi pregiudizi e le sue fantasie, le sue perturbazioni più o meno conflittuali incidono molto sul modo con cui il soggetto vivrà di fatto la sua condizione sensoriale.
Qualunque sia l’ambiente di appartenenza, occorre comprendere che si tratta comunque dell’ambiente reale e quotidiano del soggetto, del luogo nel quale egli ha organizzato la rappresentazione del proprio sé ed anche la propria identità personale.
Quando in particolar modo la scuola organizza vere e proprie battaglie culturali, contesti giudiziari di condanna contro l’ambiente di appartenenza di un determinato alunno, essa ignora o finge di ignorare che in tal modo attacca ed offende soprattutto l’integrità dell’alunno, rendendo molto più difficile il suo tentativo di conciliare e di calibrare conservazione e cambiamento, tradizione e rinnovamento.
L’esperienza ci ha dimostrato con estrema chiarezza che il bambino non vedente, quando viene aiutato a conoscere le proprie reali possibilità, diviene capace di organizzare una duplice identità,
vale a dire un sé scolastico che si evolve progressivamente senza entrare in conflitto con le personali abitudini sociofamiliari.
Non si tratta, come potrebbe apparire superficialmente, di un fenomeno di dissociazione, ma soltanto di un delicato processo di equilibrazione.
A poco a poco il bambino diverrà infatti capace di introdurre nella propria famiglia e nel proprio ambiente un lento ma determinato processo di mutamento, nel corso del quale le sue effettive possibilità potranno affermarsi, rinnovando parzialmente anche l’intero contesto della famiglia.
E’ necessario che la scuola impari a nutrire fiducia in una simile prospettiva, imparando inoltre ad organizzare con la famiglia una relazione più serena, caratterizzata soprattutto da un modo di comunicare rispettoso e propositivo, privo di accenti giudiziari e di strategie modellanti.
Una scuola capace di credere nel valore delle proprie funzioni non entra in competizione con la famiglia, insidiando la vita interiore dell’alunno, ma si concentra nella sua prospettiva di apprendimento e di insegnamento. Soltanto così il bambino ed in particolar modo il bambino disabile, potrà sentirsi accolto e riconosciuto nella sua complessiva realtà personale.

5.  La qualità della risposta alla minorazione, per quanto concerne gli aspetti propriamente funzionali.
Occorre subito precisare che un soggetto privo della vista risponde generalmente al limite sensoriale restringendo il suo spazio di vita, per evitare soprattutto un confronto troppo doloroso e frustrante con le difficoltà e con le barriere presenti nella sua condizione.
In altre parole possiamo dire che la persona risponde al limite, limitando la propria esistenza e conseguentemente anche i gradi della propria libertà.
Questa risposta, di “reciprocazione del limite”, è la più tradizionale e nasce in buona sostanza dalla sfiducia della società negli strumenti di conoscenza posseduti dalla persona non vedente.
Per questo motivo la scuola non dovrebbe limitarsi a promuovere un semplice inserimento sociale dei soggetti minorati della vista, poiché dovrebbe anche affermare l’efficacia dei mezzi di conoscenza presenti nella condizione di cecità.
Per adesso, benché raramente, ciò è avvenuto ed avviene soprattutto nel mondo dell’arte e dello spettacolo, piuttosto che negli ambienti propriamente scolastici.
Evidentemente si tratta di una lacuna molto grave che merita iniziative di vera e propria riparazione, capaci di offrire alla società un’immagine dei ciechi meno densa di pathos dell’oscurità e più ricca di informazioni positive e feconde.
Nel frattempo spetta soprattutto ai ciechi, che ne abbiano la capacità, il compito di rendere più conosciuta la loro condizione sensoriale, dimostrando nel vivo della società l’efficacia e la validità dei propri strumenti di conoscenza.
Rispondere ad un limite mediante un processo di potenziamento compensativo è indubbiamente la cosa più difficile da fare. Ciò comunque non ci autorizza a pensare che la cosa più difficile debba necessariamente restare la cosa meno probabile.
Nel caso dei ciechi la risposta di potenziamento compensativo, benché difficile, costituisce l’unico modo per offrire e restituire alla propria esistenza la dignità della conoscenza e il piacere di una libertà responsabile.
Per tanto gli educatori e gli insegnanti dovrebbero lasciarsi ispirare dalla cultura del possibile, piuttosto che dalla cultura del probabile.
E’ questa la condizione che potrà consentire alla scuola di emanciparsi e trascendere una concezione statistico-descrittiva del fatto educativo, per andare oltre la forza delle abitudini, lungo le vie della conoscenza e della buona volontà.