Lezioni – Corsi di aggiornamento

“Identità professionale dell’insegnante e l’articolazione delle funzioni docenti nell’ambito dell’autonomia”

LEZIONE IV: La disposizione ad apprendere

Il contenimento affettivo continua a vedere la scuola particolarmente inefficace ed incapace di svolgere questa funzione. Ho detto contenimento affettivo, dovrei dire la riattivazione della disposizione ad apprendere.
Questa non può essere considerata una cosa che c’è comunque. Nessuno di noi tra gli adulti, è in ogni momento disposto ad apprendere, a conoscere, perché occorre porsi in una posizione sia emozionale sia addirittura neuropsicologica particolarmente equilibrata per cui è una superficialità pensare che uno spinge un tasto e si immette nella disposizione di apprendimento. a volte, nonostante tale nostra buona volontà, noi non riusciamo a porci in una posizione di apprendimento, il Dott. Bion, che ha studiato i gruppi, ma che ha studiato soprattutto questa posizione, che lui chiama alfa, e l’ha anche studiata dal punto di vista neuropsicologico, ce l’ha appunto ancora spiegato meglio. Che la posizione di apprendimento è quella posizione che viaggia nella nostra mente a circa 10 chilocicli al secondo e che ha la posizione che ad esempio ad una persona che soffre di epilessia in un certo senso impedisce la crisi epilettica, superando quindi uno dei più grossi pregiudizi nei confronti degli epilettici secondo cui sarebbero persone da tenere un po’ tranquilli, in sonnolenza, perché sennò gli viene la crisi. La persona con epilessia è una persona che più sta in posizione di apprendimento e meglio è perché cura la sua epilessia restando in posizione di apprendimento.
Diceva il Pro. Bollea circa 30-40 anni fa, che se un epilettico facesse il funambolo, paradossalmente potrebbero essere eliminate addirittura a zero le crisi epilettiche. Perché mentre si fa il funambolo si è in una posizione elevata di apprendimento, apprendimento rispetto all’equilibrio, quindi in un ascolto più attivo, la mente si pone in una situazione che è antitetica alla crisi, perché è talmente ben organizzato il cervello in quel momento che non c’è quell’elemento di diffusione dell’elettricità che favorisce lo scoppio della crisi epilettica. Purtroppo le perturbazioni emozionali fanno arrivare nella mente onde di altro tipo, onde molto più basse e molto più alte, vale a dire onde theta, che in qualche modo disturbano questa frequenza, questa frequenza di sicurezza è di grande equilibrio. E questo rende tutto molto più difficile.
Non parlo più a questo punto degli epilettici, parlo anche di tutti gli altri, per cui una persona normalmente viaggia con la mente o onde theta, quindi a pochi cicli al secondo vale a dire intorno a 1,2,3,4, chiaramente apprende poco perché la sua mente è più predisposta alle fantasie ad occhi aperti, è più predisposta a stati quindi la confusione mentale, di condensazioni mentali che vanno a superare la dimensione spazio temporale per cui non è adatto in quel momento a cogliere il senso rigoroso di quello che gli viene comunicato, di quello che gli viene segnalato in qualche modo.
Allora qui la domanda sarebbe intanto: quanti sono i bambini, i ragazzi che entrano a scuola ogni mattina, rispetto all’universo di tutti i bambini di quella scuola in tali condizioni? Mettiamo che in quella scuola ci sono 500 alunni, restiamo nei parametri nuovi delle unità scolastiche di base, su 500 alunni quanti ce ne saranno ogni mattina che arrivano con delle perturbazioni che non li rendono disponibili ad apprendere? Io non ve lo so dire, e probabilmente nemmeno voi, ma presumibilmente il numero di questi bambini è alto. Potremmo dire che, quanto meno per restare in una misura di prudenza, perlomeno 2 su 10 ci si trovano.
Allora a questo punto la seconda domanda è: questi bambini che arrivano a scuola non disposti ad apprendere, meritano delle cure in questo senso o no? Ha diritto come alunno, nell’ambito del suo diritto allo studio, ha diritto ad essere curato finchè la sua disposizione ad apprendere possa essere in qualche misura almeno ripristinata? Penso di si e spero che voi pure lo pensiate, perché se pensate di no, almeno per quelli che pensano di no il discorso che arò non serve a nulla o quantomeno serve pochissimo.
Ci sono degli insegnati delle scuole medie superiori ad esempio che sostengono che spetta all’alunno venire motivato ad apprendere, se lui arriva che non lo è, cosa si può fare? E in un certo senso ciò ti smonta, perché non è facile replicare a questo tipo di impostazione. Sul piano logico è facilissimo, basta dire che la scuola non ha semplicemente la funzione di impartire delle informazioni o di presentare comunque delle discipline, ma anche una funzione informativa per cui il ragazzo va aiutato in tutti i modi a scorgere l’importanza, il valore e il significato di quello che deve apprendere a scuola, e che va aiutato a trovare insieme le risorse necessarie perché ciò avvenga.
Mettiamo l’ipotesi che voi siate tutti d’accordo che questo diritto c’è e che quindi da parte nostra come operatori scolastici c’è il dovere di svolgere questa funzione. Ma questa funzione nella scuola è organizzata o no? A me personalmente sembra proprio di no, sembra che non è organizzata, che ci sono alcuni insegnanti che nella loro visione del compito hanno trovato anche questa cosa, ce ne sono altri che la trovano di meno, altri per niente. In ogni caso a livello organizzativo scolastico, dicevamo prima dell’offerta formativa, in questa dicitura moderna, ancora questo aspetto si presenta molto raramente se non in senso sperimentale in qualche scuola. Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono anche insegnanti del passato, anche insegnanti all’antica per dirla così, che da sempre svolgono ad esempio una funzione di questo tipo con gli alunni e lo svolgono intuitivamente senza bisogno che qualche psicologo venga nella scuola a fare aggiornamento in tal senso. Io a questo cosa posso rispondere? Intanto che è vero, sicuramente perfino nell’800 c’erano insegnanti che sapevano fare ciò, ma lo facevano sulla base di una loro personalità, una loro intuitività e attraverso anche delle loro capacità che si erano formate non a scuola ma in un latro luogo. Vale a dire queste persone venivano a fare l’insegnante già dotate di queste capacità, non era certo una formazione che loro avevano ricevuto per fare gli insegnanti.
In dei conti anche a livello genitoriale in parte può esistere questa funzione, non tanto come riattivazione ad apprendere, ma ad esempio come riattivazione della disposizione a giocare, che è una cosa non uguale ma comunque simile. In fondo anche per giocare servono determinati presupposti non gli stessi esattamente perché nel gioco non c’è solo apprendimento o meglio l’apprendimento ludico è un apprendimento che presuppone però sempre il piacere, ossia l’elemento centrale della questione perché se non c’è il piacere non è gioco e quindi da questo punto di vista io penso che la scuola debba cominciare ad organizzare questa funzione, creando nell’ambito della scuola sia una maggiore sensibilità sia una maggiore competenza, ma anche creando un settore, non dico di specialisti, ma di persone particolarmente indicate a svolgere questa funzione finché nei casi più difficili possano intervenire in termini non più strettamente legati alla loro classe di appartenenza ma legati al contesto globale della comunità scolastica.
Vi dico subito questo, a scanso di equivoci, che questa funzione di contenimento farebbe parte anche sul piano organizzativo, un collegamento più stretto tra l’istituzione scolastica e l’istituzione di pubblica sicurezza. Perché del contenimento fa parte anche una funzione nella quale il ragazzo viene a percepire che la scuola non va in crisi di fronte alla sua prepotenza.
In genere sono molti i Direttori ed i Presidi che quando parlo di questo argomento si rifiutano, non faranno mai questo, mai si organizzeranno insieme con il posto di Pubblica Sicurezza più vicino alla scuola. Perché l’idea non gli piace e la trovano particolarmente autoritaria ed anche un po’ “fascista” ed allora io replico a questo dicendo “Ma quando capita che un ragazzo ad esempio tira fuori un coltello, voi che fate?” “Certo, chiamo la polizia” Chi arriva?” “Arrivano i poliziotti” Quali?” Magari gli stessi che prima sono andati a fare un intervento celere, magari fanno parte della Mobile, per cui prima hanno preso un rapinatore di una banca e poi vengono a prendere un bambino. Vi sembra bello questo? A me sembra terrificante. A me sembra molto più congruo che si cominci a parlare di ordine pubblico nella scuola anche con un atteggiamento più previdente ed organizzato per cui ci debba essere qualche poliziotto che svolge una funzione civile adatta ad essere offerta ai minori. Perché è certo che se il poliziotto, come succede oggi, di affatto poi si rivolge all’alunno con lo stesso spirito con cui si rivolge al rapinatore, lo capite da solo che altro che l’attivazione della disposizione ad apprendere. Rischi proprio una sollecitazione a immaginarsi come un delinquente, e quindi cominciare già a scuola una sorta di individuazione delle doti delinquenziali di alcuni alunni, una sorta di profezia che poi si autodetermina.
E proprio per evitare questo che questo che quello che viene ritenuto autoritario, a me sembra invece molto paterno, molto genitoriale in senso istituzionale, mi sembra anche molto necessario perché le cose si fanno con previdenza vengono pure fatte con benevolenza, con semplicità, con calma, se invece vengono fatte sull’onda del pronto soccorso, vengono fatte in modo esasperato e con tutti gli errori, gli squilibri del caso.
A questo punto possiamo cominciare a pensare a quali siano le situazioni più ricorrenti, come frequenza numerica, nelle quali si smarrisce la disposizione ad apprendere. Cominciamo da quelle più chiare: una situazione di lutto.
Per esempio un bambino viene a scuola e gli è morta una persona cara. Può essere disposto ad apprendere? Può darsi di sì, ma certo questa sua disposizione ad apprendere dovrà passare attraverso almeno delle attenzioni particolari, un po’ speciali, che in ogni caso poi saranno diverse perché c’è quello che vuole parlare, quello che non vuole parlare, ma comunque in ogni caso si tratta di alunni che hanno bisogno di attenzioni particolari. Perché poi non si può stare in una situazione o di lutto o di evitamento del lutto, che è ancora peggio, ed essere nello stesso tempo disposti ad apprendere.
Un ragazzino ad esempio che viene a scuola dopo aver fatto una lunga litigata ed è furioso con i suoi familiari, arriva a scuola in genere come? Arriva a scuola con un turbinio mentale che è scomposto, che non gli rende possibile la stabilità dell’attenzione e tanto meno poi la stabilità della riflessione e la stabilità dell’assiduità nell’esercitarsi. Disturbi sia di carattere fantasioso, disturbi dovuti a contrazioni muscolari, disturbi di ogni genere lo faticano e lo distolgono dal compito che era chiamato a svolgere in quanto alunno e quindi anche questa è una situazione chiara.
Un bambino ad esempio che dorme male la notte, ma siamo in una situazione meno momentanea e più sub acuta o addirittura cronica, viene in uno stato di sonnolenza. E pure qui si pone il problema di come aiutarlo ad essere un alunno.
Caso molto più frequente di questi tre, un bambino che ha una componente ansiosa molto forte e molto costante nella sua vita quotidiana.
Che cosa gli fai? Tra angoscia ed apprendimento c’è un dissidio di base, è proprio difficilissimo rendere compatibile l’angoscia e l’apprendimento. Perché l’angoscia è soprattutto lo stato d’animo di chi si aspetta da un momento all’altro qualcosa di catastrofico, senza riuscire a sapere che cosa. Ha paura e basta, ha paura in generale di qualche cosa di distruttivo, che però non sa dire e questo stato lo rende vigile, ma vigile in una maniera che lo porta dappertutto in senso di fantasie, non in senso di osservazione della realtà. E allora anche questo è un bambino che se tu gli vai a parlare mentre lui sta così, della Spedizione dei Mille, è molto difficile che possa affezionarsi a questo episodio della storia del Risorgimento italiano. È più facile che mentre voi parlate, o disegnate o illustrate sulla Spedizione dei Mille, lui cerca di diffondere all’esterno la propria angoscia. Perché uno che sta veramente angosciato non trova altro in genere di meglio da fare che distribuire la sua angoscia in modo che l’angoscia, stando pure all’esterno di sé.. cercate di seguirmi in questo, perché poi non viene capito quasi mai un ragazzo. Il ragazzo che comincia a stuzzicare il suo vicino di banco per farlo arrabbiare, che fa lo sgambetto a quello che passa vicino, che tira il gessetto nell’orecchio di quell’altro, che ruba la merenda fino a che scoppia un putiferio. Non è un folle. È uno che avendo la tempesta dentro, cerca di suscitare una tempesta fuori in modo che quella dentro la senta di meno.
Sembra chiaro, ma mi sento dire dagli insegnanti, mi ci fermo un attimo su ciò, perché non c’è giorno che almeno un insegnante non viene a dire “Quello è proprio cattivo, è dispettoso, quello fa qualche cosa di distruttivo, non c’è niente da fare, deve per forza fare dei guai altrimenti non è contento. Ed infatti fatto il guaio si vede che ha la faccia più tranquilla”. Allora queste espressioni sono il segno che uno però non ha capito il contesto di queste espressioni, è dire che quello vuole il proprio questo. Quello lì invece potrebbe essere detto in tutt’altro modo, cioè che quello cerca di stare tranquillo. E per stare tranquillo ha trovato solo questo modo. Nel suo ambiente di vita quotidiana non c’era altro modo per stare tranquillo. Vedremo tra poco che ci sono altri modi per stare tranquilli quando uno sta così. E se il ragazzo li conosce, ci potete giurare che cambia, che però deve essere in qualche modo portato e indotto a conoscerli.
È un po’ come quello che tende a prendersi gli stupefacenti di ogni tipo, se però fortunatamente viene indotto a conoscere dei piaceri migliori che non quelli lì, ci potete giurare che non ricorrerà più a quel tipo di piacere. Perché conoscendone uno più avanzato, lascia quell’altro perché ne capisce anche meglio l’insidiosità. Ma fino a che quello è il piacere migliore che conosce, a voglia Miscioli o Don Mazzi, quello continua perché la nostra natura è quella di andare verso il piacere che riteniamo maggiore. E allora una persona che sta messa in quel modo, il nostro dovere di educatori è di educarlo con tutti i mezzi che abbiamo a conoscere piaceri migliori di quello.
Ma mettiamo che non ci crediamo nemmeno noi, e magari non la facciamo non perché non siamo convinti che ce ne sono dei migliori, ma non lo facciamo semplicemente perché è male farlo, allora sono guai. Sono guai perché significa che noi non abbiamo fiducia che esistano modi migliori di vivere. E infatti cerchiamo proprio a quel punto di evitare che le persone entrino in contatto con queste cose perché siamo convinti che se entrano in contatto comunque ci cascano. E invece ci sono milioni di persone che pur se entrassero in contatto tutti i giorni con la cocaina non la prenderebbero perché non gli serve a niente. E ce ne sono altri invece che nonostante si fa di tutto per staccarli dalla cocaina, gira gira ci arrivano perché ne hanno un bisogno enorme in quanto non conoscono di meglio.
Lo stesso discorso vale per quello angosciato che organizza un comportamento caratteriale in base a questa sua angoscia. E sapete bene che si tratta di alunni molto frequenti nella scuola. Ricordate che ne bastano pochi per determinare nella scuola una certa inquietudine, è evidente che il problema è molto concreto.
Adesso entriamo nel discorso che ci interessa di più: come si fa tutto questo, che cosa bisogna fare e poi, quali sono le indicazioni pratiche, intuitive che si possono dare in questo tipo di discorso. È chiaro che io faccio dei corsi molto lunghi su questo, corsi anche di 60 ore tutti sul contenimento affettivo. Adesso vi darò solo degli strumenti. La prima cosa sul piano pratico riguarda quello che potremmo definire in termini psicologici la conferma del sé.
Se uno dice “ho paura”, vi dico statisticamente che gli insegnanti in genere all’espressione rispondono “No, non devi aver paura”. Diciamo che questo non è un modo di riconfermare il sé dell’altro, si parte proprio con il piede sbagliato perché di fronte ad un’emozione, la paura fino a prova contraria è un’emozione,non ci si può porre dicendo quello che uno deve o quello che uno non deve. Sarebbe come se un bambino ti dice “ho tanto desiderio di dar fuoco alla casa perché è male”. Anche questo non è un modo di confermare il sé di un bambino.
Perché un desiderio non è che uno decide se c’era o non c’era, così come non decise se ha paura o no, così come non decide se ha o non piacere. C’è e basta.
Questa parte della negazione che io chiamo conferma del sé, la riprendo da autori molto più convalidati di quanto non possa essere io.
Però mi dovreste confortare in questo senso, non sto dicendo un’esagerazione o è vero che questa modalità viene più spontanea in tali circostanze? Viene proprio dal cuore uno anche sulle emozioni ragiona in termini di dovere o non dovere, quando invece una persona più libera e più responsabile, e quindi perché aiutata da un ambiente educativo un po’ più corretto nei suoi confronti, ha imparato magari a dire “Io desidero dare fuoco alla mia casa, però certamente non lo faccio”. Perché il desiderio è molto comprensibile. Perché altro che il fuoco che egli dovrebbe dare per quello che gli succederà ogni giorno, però non gli va che gli altri restino bruciati, nemmeno gli oggetti. Per cui una cosa è desiderare una cosa ed un’altra è fare. Sono due aspetti completamente diversi. Se uno desse sfogo a tutti i propri desideri, sarebbe sicuramente un criminale.
Questo vale per ciascuno di noi, e se qualcuno di voi non ha desideri, diciamo così illegittimi dentro, mi spiace per lui perché significa che li ha talmente compressi dentro che sta sicuramente peggio degli altri, perché non è proprio possibile immaginare che dentro di noi non ci siano desideri che vanno oltre la legittimità per cui se non ci sono a livello cosciente, i fatti dimostrano ormai da casistiche di intere generazioni che premono da qualche altra parte, infatti spesso in quei casi ci sono molti disturbi di tipo psico somatico e tante altre cose.
Per la paura vale lo stesso discorso. Se uno ha paura è inutile cercare di insistere sul fatto che il bambino non deve avere paura. Se ha paura è giusto che abbia paura. Semmai quello che deve capire, quello sì che è bene che lo capisca, che con la paura uno le cose le può fare lo stesso e quindi confermandolo nel proprio sé, gli dice “è giusto che tu abbia paura, è giusto nel senso che è naturale, che è logico, è fluido il fatto che tu abbia paura, però non credere che la paura ci possa paralizzare”. La paura se noi la trattiamo in un certo modo, ce la teniamo vicina,però ogni tanto le diamo una bottarella, riusciamo a fare le cose lo stesso, le facciamo con paura, anzi una cosa ardimentosa non è possibile farla senza paura, perché la paura anzi ci aiuta a arla con maggiore attenzione. Infatti chi non ha paura, la persona temeraria, sta in condizione di pericolo, perché proprio la mancanza della paura lo porta a comportamenti sconsiderati. Quindi il coraggio prevede la paura, la include in se stesso, la temerarietà no. Ma la temerarietà gli psichiatri e gli psicanalisti hanno capito da molto tempo che nella temerarietà c’è anche una sorta di gioco con la morte e quindi c’è quello che direbbe Tommasi da Lampedusa, c’è già un tentativo di accarezzare la morte come possibilità. Quindi la paura è un ingrediente fondamentale della nostra vita. Guai a chi non ha paura, chi non ha paura sta effettivamente in pericolo. C’era proprio Fabrizio De Andrè che in una delle sue canzoni più interessanti dice proprio “Senza la mia paura io mi ido poco”. Aveva ragione. Quindi la conferma del sé è partire dal atto che l’altro ha diritto ad avere le emozioni che ha, il desiderio che ha, la paura che ha e così via.
Questo vale anche se scoppia a piangere ed ha la faccia afflitta.
Che facciamo noi di fronte ad uno che piange? Cerchiamo in modo più o meno maniacale di fare qualcosa di farlo smettere di piangere. Infatti le persone dallo psicologo ci vengono volentieri quando hanno capito di che si tratta perché capiscono che almeno lì non c’è nessuno che gli dice “Smettila” ma dice invece “Vediamo che cos’è che ti fa piangere, perché è importante quello per cui piangi, vediamo che cosa ti si figura nella mente mentre piangi, quali sono le immagini del tuo pianto, quindi quali sono i ricordi, quali sono i pensieri, anche i desideri perché nel momento del pianto i desideri fanno come fa il sole alla mattina all’alba”.
È proprio nel pianto che rinasce il desiderio, persino nel pianto più afflitto. Nasce in modo malinconico, però nasce. È un’analogia malinconica, però è comunque sempre un’alba e quindi è un momento estremamente fecondo nella vita delle persone il pianto. Ed invece noi abbiamo la tendenza a farlo scomparire. Perché? Perché stiamo organizzando, per lo meno stiamo cercando di organizzarlo. Ci sta andando per fortuna male, nel senso che non ci sta riuscendo, una società di tipo analgesico, cioè una società in cui dove c’è il dolore, dove c’è il pianto, dove c’è la tristezza si cerca subito di toglierli di mezzo.
C’è quell’immagine bellissima di huxley, non so chi si ricorda quel vecchio libro “Per un mondo nuovo”, dove ci sono i poliziotti che hanno dei fucili con i quali pompano nell’aria una cosa che si chiama soha, che è di fatto un ansiolitico, e che come vedono qualcuno che sta arrabbiato, come vedono qualcuno triste, pompano questa e la gente di nuovo sorride, di nuovo sta tranquilla. C’è una sorta di profumo analgesico, una sorta di droga aerea che si può diffondere nell’aria e che è proibita perché è proprio quella di stato, quella che viene organizzata dallo stato delle cose.
Quindi la conferma del sé è la prima grossa orma di contenimento.
Soltanto che qui si complica un po’ perché come possiamo farlo ad un altro se non sappiamo fare a noi stessi?
Pensateci un attimo. Come ci comportiamo con il nostro pianto, con il nostro dolore, con la nostra rabbia, con i nostri desideri, come dire un po’ criminali? Li trattiamo come ospiti interni da trattare bene oppure li consideriamo come degli ospiti indesiderabili e quindi da trattare male e prendere a martellate per portarli subito in una condizione di non essere più visti’ purtroppo la tendenza nostra è che quando c’è qualcosa di questo tipo noi siamo abituati a scacciarla via, a non volerla vedere perché abbiamo quasi la convinzione che questo si può sottrarre, che questo dolore ci può distruggere.
È un po’ come il dolore fisico. Quando si tratta di accettare un qualcosa a livello di operazione sanitaria che ti verrà fatta, che tu pensi, ancora prima di quello che potresti fare perché non tanto hai paura di quello che già sta succedendo, ma pensi ad un dolore ancora più forte, che magari poi non arriva. E intanto tu arrivi ad uno stato di insostenibilità perché pensi che quel dolore crescerà fino ad ammazzarti, quando invece il dolore non può mai ammazzarti perché arriva il momento che il dolore non lo sopporti più e svieni. Perché il fisico è già organizzato contro il dolore, per cui oltre una certa soglia non si può soffrire, perché la persona disattiva il meccanismo del dolore e non lo sente più. Per cui migliorare il proprio coraggio rispetto al proprio dolore e avere sempre più chiaro questo: che si può arrivare ad un massimo e non più di quello, che non è possibile arrivare più di quello.
C’è uno stato di libertà enorme che si raggiunge quando una persona riesce a capire che dal di dentro non può arrivare qualcosa che ci distrugge. E che tu comunque hai la libertà di considerarlo o di non considerarlo per cui puoi anche avere desideri assolutamente proibiti e assolutamente contrari al tuo modo di pensare dal punto di vista morale. Perché poi non lo fai, per il fatto che lo hai dentro e questo lo dico anche agli eventuali cattolici, che sono presenti, e il Vangelo che non solo ci dà questa possibilità ma ci spinge a farlo perché ci dice, con parole religiose, “Metti tutto ai piedi del signore”, come dire “Stai in rapporto con te stesso”.
Questo è di fondamentale importanze per aiutare il bambino, perché se noi invece siamo in qualche modo in una barriera interna a noi stessi, indurremo anche il bambino a fare la stessa cosa. E allora ad esempio un bambino che sia un borderline di tipo caratteriale, noi non lo possiamo aiutare perché abbiamo paura di lui, perché da lui viene una istintività che se noi la consideriamo con attenzione ci fa salire pure la nostra di istintività. E siccome abbiamo paura della nostra, tanto più avremo paura della sua. Ed infatti vengono fuori quelle sfide all’OK Corrall che diventano croniche a volte anche tragiche, ma più spesso comiche perché sono proprio delle battaglie. E ingaggiare una sfida con un bambino caratteriale è francamente una follia. Anche perché vince lui, è sicuro che vince lui. Il motivo è chiaro lui è disperato, voi per quanto possiate essere disperati, sempre di meno, potreste vincere voi se foste più disperati di lui. Perché nella lotta tra due disperati non c’è molto spazio per il capire, c’è lo spazio per il sentire. Allora ognuno sente la propria emozione forte e la vive. Magari sente pure quella dell’altro, chiaramente.
Il contenimento nasce da questo stato d’animo di accoglienza, di quello che io ho dentro e di quello che ha dentro il bambino. Certamente però non basta, in particolar modo il bambino che sta in una condizione di non possibilità ad apprendere, e quindi sta male dal punto di vista emozionale, è un bambino che non è predisposto ad essere considerato un Io, al massimo è predisposto ad essere considerato un Tu, un Tu come obiettivo, ma reagisce a questo essere considerato un Tu in forma aggressiva. La cosa migliore è considerarlo né un Io né un Tu, perché un Io non è in grado di accoglierlo, essere visto come un soggetto, essere visto come un oggetto non è in grado di accogliere lo stesso se non con rabbia e allora diventa fondamentale che venga considerato un Lui. Considerandolo un Lui, invece di essere un interlocutore suo, mentre lui si sforza si cerca di organizzare intorno a lui delle circostanze che gli consentono meglio di esprimersi.
Qualcuno subito avrà pensato “ma come faccio a are ciò in classe?”. E infatti non va fatto in classe e non va fatto soprattutto durante la crisi, durante la crisi al massimo posso cercare di rimediare il rimediabile. Ma il bambino che ha queste tendenze, le ha pure quando non ha la crisi, allora io debbo riuscire a facilitare in lui l’espressione di se stesso. La scuola per lui è soprattutto questi, per cui vanno organizzati per lui dei tempi scolastici, una mezz’ora, un quarto d’ora al giorno in cui possa stare in un posto con qualcuno che ha capito tutto questo, ed avere la possibilità di cominciare a diventare più bravo nel portare fuori di sé in forma espressiva quelli che si sente dentro, riuscendo a capire che nella misura in cui riesce ad esprimere e a far figurare fuori quello che sente dentro, si sente meglio senza aver fatto arrabbiare nessuno.
Questo è matematico, non dico forse, se riusciamo a fare questo, è sicuro che lui sta meglio.
Per quei bambini, che pur disposti ad apprendere, comunicano solo per iscritto, che si rifiutano di parlare, è meglio assecondare le forme di comunicazione che loro hanno scelto. Semmai le proposte vanno fatte su terreni comunicativi che non hanno né rifiutato né accolto, per esempio la mia mimica. Spesso dei grossi risultati si hanno con questi ragazzini se si organizza un’attività ad esempio pantomima perché si affezioneranno tantissimo a quel modo alternativo di esprimersi che per loro è un arricchimento, perché trovano il modo di arricchire la comunicazione senza scivolare da quella impuntatura che hanno preso sul piano della non verbalizzazione. D’altra parte il meccanismo che li fa stare zitti è un meccanismo molto semplice. A casa questi bambini non solo parlano, ma parlano troppo. È una casistica quasi omogenea, si tratta di bambini che non si riesce a farli stare zitti a casa, però parlano in condizione di centralità. In fondo anche questi sono più un Lui o un Lei a casa, sono molto importanti dentro casa. Sono sicuramente bambini che non hanno carenze affettive, anzi tutt’altro. Sono bambini che parlano tanto ma a volte parlano sussurrato, per esempio perché così gli altri si devono avvicinare ancora di più per ascoltarli. Sono principi e principesse, dico io scherzando in genere, perché se uno guarda, in qualche atteggiamento del loro corpo hanno anche una loro regalità. Si, è vero che stanno anche un po’ ritirati, ma è vero pure che hanno una certa arietta che non è quella remissiva, è impaurita ma non remissiva. Sono bambini molto particolari. Certamente è un errore gravissimo quello di continuare a fare la prova “vediamo se parli”. Quello è l’errore più grave per gli insegnati: continuare a fare quest’errore. Nel senso che fino a che, anche lontanamente, la scuola continuerà in modo sornione, con una strategia di avvicinamento e così via, loro queste cose le sentono lontano un miglio e quindi fino a che tu ci speri, loro non parlano, non cederanno ,ai, devono vincere. Quindi la scuola può riuscire a farli parlare soltanto se la scuola riesce a farli sentire che hanno vinto.
E invece ancora oggi la scuola vive un rapporto di potere con gli alunni e quindi non riesce ad immaginare che, e questi è molto sintonico con quanto dicevo prima, che con gli alunni bisogna avere la lungimiranza e la saggezza di far vivere la vittoria su di te, perché vincendo su di te vince su se stesso. Noi dobbiamo essere perdenti nel senso che dobbiamo fare in modo che vincendo su di noi il ragazzo migliora. E vincendo su di noi, se abbiamo capito bene il nostro compito, non ce ne importa niente, noi stiamo lì non per vincere, ma per convincere che è molto diverso. Per persuadere l’altro verso una direzione. Se poi ci va dicendo “ho vinto”, però va in quella direzione, anzi non devi dire manco che sei contento, stai proprio zitto, perché se dici che sei contento è capace che capisce che in qualche modo hai vinto tu. Questo è un atteggiamento che l’educatore ha difficoltà ad accettare. Mi ricordo gli sforzi fatti per superare ciò, ma da soffrire amaramente, perché mi veniva tanto forte dentro questa voglia di fare il combattimento. Perché ci viene proprio dal profondo dell’anima “ Io ti metto a posto, ti metto in condizioni di..” ed è proprio questo stato d’animo che uno ha dentro.
Ad esempio questo tipo di mutismo la Dott.ssa Salvini a Milano è riuscita a sbloccarlo, ma durante la psicoterapia, non a scuola, attraverso una supplica. Cioè organizzando la supplica tipo la supplica alla Madonna di Pompei cioè vale a dire se io organizzo in termini però psicoterapeutici un altare, ti ci metto sopra, ti vesto come la Madonna, faccio tutto il cammino degli scalini ginocchioni e ti supplico, ma lo faccio in modo serio, allora chiaramente può darsi che risponda perché dentro di lei a quel punto si sente venerato e attraverso la venerazione può darsi che parli.
Vi vorrei fare un esempio di contenimento del bambino piccolo perché nella sua emblematicità questo vi può aiutare a capire per intuito tante altre cose e poi dirò qualcosa sull’osservazione che è di carattere preliminare e che è fondamentale e che almeno da quella sola è un elemento che se lo tenete a mente vi potrà anche aiutare in qualche situazione.
L’esempio che voglio fare è un bambino di pochi mesi che piange disperato, di un pianto che non è collegato ad un bisogno chiaro, non è fame né sete, non si è bagnato, né altro di dichiarato. Questi tentativi sono già stati fatti tutti, è stato offerto da mangiare e da bere è stato lavato e profumato e così via. Ciò nonostante il bambino continua a piangere e piange anche in modo abbastanza consistente. A quel punto non piange in modo così disperato e parossistico da doverlo all’ospedale, perché non ha nessun altro segno somatico che ci può fare impensierire, non ha la febbre, non ha niente altro, solo continua a piangere, probabilmente ha dentro qualcosa di viscerale, magari potrebbe esserci qualche pressione d’aria, o qualche brutta immagine che si è presentata dentro la mente, o magari tutte e due queste cose, potrebbe anche avere un dolore interno, non del tipo che uno deve correre all’ospedale. Che fare in questo caso? Un errore che spesso fanno le madri o anche quelle che ne fanno le veci e quello di continuare a cercare l’interlocuzione con il bambino, vale a dire il rapporto occhio a occhio, a cercare di imbonire il bambino attraverso una distrazione verso qualcosa oppure attraverso una sorta di supplica. Queste due modalità in certi casi possono essere efficaci ma sono comunque sbagliate, perché in ogni caso io insegno al bambino in questo modo a non restare nella posizione di pianto in modo più tranquillo. Vale a dire continuo ad attribuire al pianto qualche cosa di inquietante e di eccezionale, che non è invece congruo perché invece è meglio che il bambino cresca pensando che anche il pianto è una condizione normale, non è una condizione eccezionale.
Ovviamente la madre lo fa perché non riesce a tollerare il pianto del bambino, perché magari chissà quante volte vorrebbe piangere lei. E allora non potendo piangere lei perché non se lo concede, è costretta a non concederlo neanche al figlio. Proprio per questo alla madre andrebbe insegnato sia a piangere lei sia ad accogliere il pianto del bambino come qualcosa che c’è, che deve essere rispettata, che deve essere contenuta, e che prima o poi si placherà. Ma non si placherà perché lo voglio io, non si placherà perché io ho il controllo della situazione, non si placherà perché appunto sono io a dominare la situazione, non si placherà appunto perché sono io a dominare questa situazione di mio figlio, si placherà perché il bambino ritroverà anche con il mio aiuto, nel senso che io gli sto vicino come presenza disponibile e accogliente, troverà la forza di uscire da quella situazione. Tant’ è vero che se un bambino viene tenuto in braccio in modo accogliente, in modo relativamente sereno e sta piangendo, voi vedete proprio che tranquillamente, a poco a poco, anche se ha i dolori, e i dolori non gli sono passati, a poco a poco si acquieta e magari si addormenta. Perché riesce a trovare nella vita del sonno l’uscita dal dolore. E siccome il sonno del bambino è particolarmente impermeabile al dolore, molto più del nostro, il bambino magari dorme e quando si sveglia gli è passato.
Invece nell’osservazione di questi rapporti, funzione materna e bambino, si vede che questa è l’ultima cosa che si fa, è la cosa che si fa di meno e anzi bisogna dire che confrontando le madri di qualche decennio fa, dalla prima metà del secolo, da tutti i protocolli che sono disponibile, sembrerebbe che sia quasi una funzione che è in decadimento, come i genitori di oggi stanno perdendo questa capacità di consolazione. Perché stanno erigendo dentro di sé quasi più che un’organizzazione di un potere, di voler essere potenti sul bambino, tanto da determinare quello che è bene determinare. Viene a mancare questo sentimento di pietà e di fiducia, perché la pietà poi è fiducia, altro che se non è fiducia il sentimento della pietà. Dire “Io mi ci metto con tutta la pazienza, con tutta la tranquillità, non combatto il pianto di mio figlio, lo accolgo e me lo tengo così, e lui troverà la forza di uscire”. E questa è la cosa più efficace che si possa fare. Che quindi è un atteggiamento di contesto, di contenimento, e non è invece un atteggiamento interlocutorio, vale a dire “Io ti chiedo di non piangere”: si esce dal rapporto Io Tu e si entra nel rapporto Io Lui: perché lui? Perché diventa una sorta di rapporto con il mistero in fondo della situazione, dall’altra parte c’è il bambino che in qualche modo viene messo in condizione di farcela, per lo meno le probabilità che lo faccia aumenteranno in qualche modo. Tanto più invece io nella mia nevrosi d’orgoglio, mi devo sentire protagonista interlocutorio di questo cambiamento di mio figlio, tanto più si prende una piega sbagliata.
Ho preso il bambino piccolo perché è più facile, ovviamente, ma se pensate all’adolescente il discorso è esattamente dello stesso tipo. Quante volte noi organizziamo con il figlio adolescente un comportamento in cui è sottesa a tutta la nostra comunicazione il fatto che “Io ti convincerò a prendere la strada giusta” e questo diventa la fonte dell’errore del figlio perché è lui che deve vincere, non sono io. Ma deve vincere in una posizione che possibilmente è bene per lui. E allora se riesce a sentirsi forte farà le cose per bene, ma le farà non pensando che gliele ho fatte io, pensando che ha avuto lui la forza di farlo. Io nel frattempo sono stato contesto, contenitore di una situazione, ed in quanto contenitore non sono riconosciuto come protagonista.
Infatti è un po’ patetico quando certe madri di famiglia si lamentano quando dicono “Io faccio tutto, la mattina, mi alzo, faccio questo, faccio quest’altro e non mi considera nessuno”. Se proprio hanno deciso di svolgere quella funzione, quella che funzione è? Quella è una parte funzione di contenimento.
Nella funzione di contenimento non c’è riconoscimento da parte dell’altro, è proprio specifico, non ci deve essere, perché allora se non ti va di farlo, non lo fai, ma se lo fai e poi richiedi di essere riconosciuto, non hai capito niente di quello che stai facendo. Perché il riconoscimento ti viene solo dalla gioia con cui gli altri vivono e quindi dal risultato dal tuo lavoro. Ma fare quella funzione e poi richiedere che quella funzione sia riconosciuta tale, quando è una funzione sottointesa, è per definizione una funzione di contesto, di figura di sondo. Al massimo potrà essere celebrata in qualche festa, con qualche frase che ci fa anche ridere perché non serve a niente. Il riconoscimento sta nei fatti. Nei fatti nel senso che se un giorno quella funzione manca, tutti si allarmano. È quella la segnalazione che è una funzione importante. Che se la madre si ammala, addirittura i igli si arrabbiano con lei.
È come quando manca la luce, ma nessuno quando c’è la luce dice “hai visto, c’è la luce!che bello che c’è la luce! Hanno attaccato la luce!”. Ma chi li fa mai questi discorsi. Quindi l’assurdità di questa pretesa sindacalista nei confronti della funzione di contesto è veramente patetica, è patetica perché fatta da chi non si rende conto di quello che sta dicendo. Quelle sono cose che si fanno o non si fanno, se si fanno non hanno prezzo e quindi non possono avere riconoscimento. Se uno non se la sente di farlo, è un sacrificio che non lo soddisfa, è proprio bene non farlo più, in modo che qualcun altro possa avere voglia di farlo. Invece no, da un lato c’è la tentazione di restare in un luogo, dall’altro lato però la voglia che sia celebrato. Nel momento in cui è celebrata non è più quella funzione. Quindi si entra in una contraddizione senza fondo, è la stessa cosa con il neonato, è come quando uno dice “Mannaggia a mammà”: non è che io sono contento che il figlio mangia e metto le cose in modo da fargli venire fame e di affare in modo che lui cerca la roba, no, gliela do perché così mi fa contento e mangia. Quello impara in questo modo che sta mangiando per il genitore non per lui. Che mangiare è un qualcosa che serve a far stare bene il genitore. E allora l’alimentazione perde tutta la sua funzione distintiva, e perdendo la sua funzione distintiva è facile che poi uno abbia dei disturbi dell’alimentazione. Se invece uno cresce con la paura, con la fame, con l’istinto, perché noi non lo possiamo abbandonare questo istinto. Non è che siamo più animali solo perché siamo civili, come direbbe Freud e Nietzsche diceva “Siamo ancora così vicini alla nostra animalità che la civiltà ci fa venire la nevrastenia perché siamo diventati civili in fretta ma questo non significa che abbiamo perso tutta la nostra animalità profonda.
Ed allora educare significa sia educare la parte civile di noi ma anche l’animale che sta dentro di noi. Anche in quelli più costumati c’è l’animale. E allora se noi in qualche modo diamo la possibilità a questa dimensione per cui mangiare significa avere fame, non avere appetito, se non è più voler mangiare per fame, è chiaro che poi la fame perde il suo sapore di salute e diventa una forma relazionale.