Lezioni – Corsi di aggiornamento

“Identità professionale dell’insegnante e l’articolazione delle funzioni docenti nell’ambito dell’autonomia”

LEZIONE II: La facilitazione ad apprendere

Questo argomento presenta nella scuola una sua attualità indiscutibile. Perché? Non fosse altro per quei benedetti e non benedetti corsi di recupero che rappresentano oggi uno degli argomenti più discussi nell’ambito delle nostra scuole, delle nostre istituzioni scolastiche. Possiamo dire per introdurre l’argomento che per quanto attiene l’argomento di facilitare l’apprendimento di un alunno, la scuola non è sta certo capace finora di dare il meglio di se stessa, forse anzi questo è uno di quei punti in cui la scuola ha dato meno finora. Inutile stare a ripetere quanto detto tante volte che attesta appunto il fatto che la scuola sia particolarmente adatta per quei ragazzi che non hanno difficoltà di apprendimento e che di fronte invece ad alunni che dimostrano difficoltà in questo senso spesso si trova alla corda perché non sa effettivamente che cosa fare.
D’altra parte anche, fino a qualche anno fa, se non altro la psicologia non è che abbia dato dei grossi contributi agli insegnanti e la formazione degli stessi è stata tutt’altro che centrata su un argomento di questo tipo. Dicevamo, vi ricordate, che la tradizione scolastica, quella più consistente in Italia era una tradizione in cui la didattica corrispondeva soprattutto alla conoscenza della disciplina. Basta conoscere bene una materia per insegnarla bene. Questo può essere vero se abbiamo di fronte degli alunni che non abbiano nessuna difficoltà nell’apprendimento di una materia, ma quando ci troviamo di fronte ad alunni che per qualsiasi ragione presentano una qualche forma di difficoltà, questo discorso della conoscenza della materia non è più vero, anzi, certe volte è addirittura il contrario, nel senso che chi la conosce bene e magari la ama, è meno disposto a sopportare chi non la capisce. Per cui abbiamo degli eccellenti professori di matematica, ad esempio, che diventano molto meno eccellenti quando si trovano di fronte ad alunni che presentano appunto delle difficoltà di apprendimento. Una sorta di almeno tendenziale, diciamo così, aristocrazia della disciplina, che rende tutto molto più complesso, a chi però, a chi appunto non è tanto adatto a quella performance.
Detto questo, possiamo cominciare a vedere quale è il più grande pregiudizio che è nella scuola rispetto alla facilitazione all’apprendimento e che è storico, riguarda addirittura gli ultimi due secoli, e ancora non si può dire che è stato superato. Certo, parzialmente sì, ma nella buona sostanza permane.
Il pregiudizio è questo: che semplificando l’apprendimento, rendendolo più semplice, più lineare, il bambino capisca di più.
Questo non solo non è vero, ma addirittura vero il contrario. Vale a dire la semplificazione logica non è una facilitazione per l’apprendimento dell’alunno, perché non è certo la semplicità logica qualcosa che rende l’alunno più disinvolto nel capire.
Questo pensate che pedagogisti come Leone Tolstoj l’avevano capito già nel secolo scorso, oltre a capirlo l’avevano scritto, l’avevano scritto anche più volte, ma evidentemente al di là delle loro esperienze personali di pedagogisti questo fatto non era stato capito.
E ancora oggi chissà quante volte l’insegnante che si fa un ragionamento che fila liscio liscio e quindi sembra semplice, in un certo senso si sente in diritto che il bambino capisca. Come dire “E’ così semplice , così logico, e tu non lo capisci”. E magari per quel bambino la difficoltà sta proprio nel fatto che quel discorso è troppo logico per essere comprensibile.
Dice Tolstoj “Non è tanto quello che risulta logico e semplice ad essere comprensibile per l’alunno, ma ciò che risulta complesso e vivo”. Perché questo? Perché ciò che risulta complesso e vivo è più vicino alla sua vita, alla sua esperienza quotidiana e alle sue abitudini.
Il linguaggio sia della natura, sia della società sono linguaggi assolutamente complessi e vivi e molto poco logici.
Il bambino ad esempio le ambiguità del linguaggio familiare le capisce benissimo quando magari un genitore gli dice “Guarda, se non fai quella cosa io non ti faccio uscire per sette giorni!” e però mentre lo dice lo guarda con grande indulgenza e con grande tenerezza. Il bambino capisce perfettamente la complessità di quel messaggio, vale a dire “ Ti devo dire così, ma stai tranquillo che non lo faccio” tant’è vero che farà la stessa cosa un attimo dopo perché sa benissimo che quella sensazione non verrà messa in pratica.
E non mi potete dire che ciò che vi ho detto sia semplice. È di una complessità impressionante. Vale a dire, ci sono due messaggi: uno di tipo logico-verbale, un altro di tipo analogico corporeo, che sono due cose esattamente opposte con una sintassi interna in cui però l’aspetto mimico gestuale corporeo prevale sul secondo, quello logico verbale ed il bambino coglie sia i contenuti dei due messaggi sia la sintassi interna e risponde. E guardate che questo lo capisce persino il bambino insufficiente mentale. Quindi il bambino insufficiente mentale, certo sto parlando di un’insufficienza lieve o medio lieve, capisce tutte e tre le cose e si regola.
Invece spiegate a quello stesso bambino come si trova l’area della superficie del quadrato e subito le cose si complicano maledettamente. Qual è la differenza tra questi due casi, perché il primo così complesso e contraddittorio apparentemente viene capito così bene, ed invece il secondo, quello dell’area della superficie del quadrato, che è semplicissimo e di una logica veramente coerente viene capito così male? Non so se ve lo siete mai chiesto in modo approfondito, se vi è mai capitato di mettervi a riflettere proprio su questo punto.
Perché la spiegazione di quanto vi ho detto è la base della facilitazione ad apprendere.
La differenza tra le due situazioni è che il primo, quello complesso e vivo, benché contraddittorio nella sua apparenza è comunque qualcosa di estremamente vicino alla quotidianità dell’alunno. Se lo sente familiare, se lo sente vicino, se lo sente in qualche modo suo, ha imparato ad orientarsi in quel fatto perché gli sarà capitato centinaia di volte e quindi si è organizzato un problema che lui ha imparato a risolvere a poco a poco, gradualmente, giorno dopo giorno. Lo stesso non si può assolutamente dire per il secondo esempio perché non è che tutti i giorni si trova a computare le aree delle superfici dei quadrati, anzi, nella sua vita quotidiana l’area della superficie del quadrato è un concetto, un significato oltre che un concetto, lontanissimo. Primo perché non fa nessun tipo di attività in cui questa conoscenza gli serve, messa almeno in questi termini, se già facesse almeno mezz’ora al giorno il maiolicaro sicuramente questo tipo di attività gli servirebbe, ma prima bisogna che lui faccia il maiolicaro e poi dopo potrà diventare per lui una conoscenza complessa e viva, perché sarà interna a questo suo agire di persona che deve coprire una superficie con delle altre superfici più piccole, non solo, in questo modo, nel momento stesso in cui impara a lastricare un suolo, impara pure a scoprire come sono le superfici ed impara pure a scoprire la divisione, in un certo senso. La divisione cioè della superficie in piccole superfici.
Qualcuno potrebbe dire “Ma ci sono bambini che questi problemi non li hanno, che anche se l’area del quadrato è lontanissima dalla loro esperienza, si mettono lì e la fanno”. Ma quelli sono bambini che non hanno difficoltà di apprendimento, e che la scuola per quei bambini lì non ha neanche il problema di una metodologia didattica, perché anche se sbaglia, la scuola, ottiene dei buoni risultati. Perché il merito in quel caso non è della scuola ma è dell’alunno che è del tutto adatto ad apprendere anche quando la forma in cui gli viene presentato il contenuto da apprendere non è magari del tutto adeguata.
Sono molti i pedagogisti che in quest’ultimo secolo hanno detto che la scuola appare particolarmente adatta per quei bambini che non ne hanno bisogno.
Ecco, questa è un po’ la premessa del mio discorso sulla facilitazione ad apprendere.
Che cosa ne possiamo dedurre da questo primo discorso sul pregiudizio: che una preoccupazione della scuola, e questo badate, dalla scuola materna fino all’università, è quella di una necessità di avvicinare di più i contenuti di una singola disciplina, di ciascuna singola disciplina, con le esistenze reali, con le esistenze concrete degli alunni.
Se non c’è incontro di esperienze il fatto educativo difficilmente risulta valido dal punto di vista dell’istruzione.
Quello di cui vi sto parlando non è semplice, e non è nemmeno complesso e vivo, è qualcosa di estremamente problematico quindi richiede sforzo, impegno, concentrazione, non può essere piacevole in nessun modo, anche perché va a toccare una delle vostre peggiori defaillance. Dico non vostre in quanto persone, vostre in quanto categoria, e quindi anche frustranti, però proprio per questo può essere utile.
Una domanda apparentemente ingenua è “ma come si avvicina una disciplina all’esistenza di un alunno?” non è mica semplice e infatti lo sa fare solo chi quella disciplina l’ha un po’ approfondita e un po’ riflettuta in termini anche di rapporto con la vita. Difficile che la possa avvicinare all’esistenza chi non l’ha avvicinata all’esistenza mentre la studiava. Per cui se io quella disciplina l’ho studiata in modo scolastico e formale anche a qualcun altro. E quindi ho assolutamente bisogno di fare riferimento a corsi di preparazione, a qualificazioni disciplinari singole, specifiche per imparare di nuovo quella disciplina in modo più vicino alla mia esistenza e di conseguenza per renderla poi anche più vicina all’esistenza degli altri.
Questo vale non solo per la matematica, ma per materie apparentemente più semplici come la lingua italiana, le osservazioni scientifiche e così via. Quindi è questo lo sforzo principale.
Qui non sono presenti insegnanti della Scuola Media Superiore e me ne dispiace perché sono soprattutto gli insegnanti della scuola media superiore che in questo senso avrebbero bisogno di fare questo lavoro. Ci sono professori di fisica, professori di chimica, professori di mineralogia, di altro insomma, che nel momento in cui gli si chiede di avvicinare la disciplina all’esistenza degli alunni, non capiscono proprio il messaggio, non capiscono cosa gli si stia dicendo. In questo senso bisognerebbe proprio ricominciare ed anche i libri di testo dovrebbero essere più favorevoli in questa direzione, aiutare proprio anche il professore stesso ad avvicinarsi alla disciplina in altro modo.
Vi faccio un esempio, il fatto che adesso in tutti i supermercati i vari prodotti hanno delle scritte per legge che parlano di ingredienti dal punto di vista alimentari stico e che tenderebbero a favorire il consumatore sul piano della discriminazione delle qualità ed anche delle quantità dal punto di vista nutritivo. Non è certo una cosa difficile da combinare per esempio sia con la chimica, la biologia od altro, anzi, dovrebbe venire del tutto spontaneo. Da una ricerca invece che è stata fatta su questo settore si vede che invece i professori che utilizzano questi dati per fare scuola sono pochissimi. Come ve lo spiegate voi? Non è così difficile da spiegare, purtroppo. È un fenomeno relativamente semplice che vi fa capire quello che dicevo prima, che se un insegnante ha studiato la chimica all’università non interessandosi assolutamente di rapportare quello che stava studiando con aspetti del quotidiano e del reale perché era troppo preso dal riuscire a fare gli esami nelle sessioni, ma era preso da altro, comunque non era preso da questa esigenza, evidentemente poi tende a non chiederselo nemmeno nel momento in cui viene nella scuola ad insegnare così come ha imparato. Soltanto che poi per un alunno stare lì ad imparare una formula di chimica organica o di chimica inorganica, non applicandola subito ad elementi di vita quotidiana, oggi come oggi è molto più complesso di quanto non fosse prima.
Ma ci dobbiamo capire anche su questo, perché oggi è più complesso? Perché mentre prima a scuola ci andavano a quel livello solo quelli cosiddetti adatti alla scuola che erano una minoranza, però una minoranza altamente quotata che andava alla scuola superiore, oggi è chiaro che le cose non stanno così. Ancora oggi esistono persone che possono fare a meno di questo avvicinamento, non che non ne sorano, però riescono a farne a meno. Soltanto che ce ne sono più della metà, e non lo sto dicendo a caso, in una classe di 25 alunni almeno 15 questo avvicinamento lo sentono necessario per poter studiare, non per riuscire bene, ma per capire proprio quello che vi stavo dicendo.
Un’altra questione è quella dei ritmi. Qui c’è un altro discorso che è tutt’altro che piacevole ma che comunque è necessario. È quello di rendere un argomento padroneggiabile in modo disinvolto. Non basta capire, dopo aver capito è necessario riuscire ad applicare quell’argomento con relativa disinvoltura. E non si può pensare che un alunno sappia qual è l’argomento senza che prima abbia imparato a riapplicarlo in modo disinvolto, per cui tra una cosa e l’altra c’è bisogno di esercizi, di esercitazioni per automatizzare il contenuto disciplinare acquisito. Ecco questa è una cosa, lo sapete meglio di me, che non va molto di moda oggi. È come dire che già lo so, gli alunni poi sono proprio convinti di ciò, se uno un contenuto disciplinare lo ha semplicemente capito, ritiene che oramai non sia necessario fare altro. E poi quando naturalmente gli si chiede una performance da fare in poco tempo e con il massimo della precisione, che succede? Errori di distrazione, imprecisioni di ogni tipo, questo a discapito poi di una effettiva padronanza di quel contenuto.
Allora sarebbe forse meglio imparare di meno ma meglio in quanto a padronanza. Questo pure può sembrare ovvio, ma non è ovvio in quanto non si fa in linea generale, ma in un discorso statistico posso dire con certezza che non si fa. Non solo non si fa, ma c’è una mentalità che sta ormai diciamo sedimentandosi quasi in forma di sotto cultura che tende a dire che questo non è necessario. Sempre perché si vede nella scuola il luogo dove esclusivamente si può imparare divertendosi, dove si fanno ore ed ore di controllo di se stesso. Probabilmente questo non è possibile.
L’apprendimento richiede allo stesso tempo un certo piacere nello scoprire, nel capire, ma anche un certo dolore nell’acquisire e nel controllare.
Il dolore viene semplicemente dallo sforzo. Quindi il messaggio educativo, tipico della relazione educativa, vale a dire “Io so che soffri ma lo devi fare perché dopo capirai quanto ciò ti possa servire” è un messaggio che ancora resta quello principale tra un educatore ed un alunno. Ed è un messaggio che esige autorevolezza per cui lo posso fare ad un alunno soltanto dopo che mi sono conquistato la sua fiducia.
Quindi mi rendo conto che è un discorso che presuppone anche delle acquisizioni precedenti sul piano proprio della relazione educativa.
Ma qui dobbiamo venire ad un punto che è quello cruciale per andare avanti.
Tutti gli studi sulla diposizione ad apprendere dimostrano che se io continuo a far fare ad un alunno degli esercizi in cui lui non riesce in 10 volte che li fa più di 5 volte, nel giro di pochissimo tempo, al massimo in un anno scolastico, in lui si organizza una rappresentazione del sé come una persona incapace di apprendere. E quindi se le sue performance diventano ulteriormente ridotte ed in base all’effetto negativo che ha assunto lui stesso questa rappresentazione di sé.
Questo significa che tradotto in termini pratici, che se noi insistiamo a far fare ad uno un esercizio nel quale fallisce almeno 6 su 10, noi stiamo organizzando la sua disfatta scolastica. Perché per poter mantenere la fiducia in se stesso deve riuscire almeno 6 volte su 10. vale a dire che deve diventare probabile il fatto che lui riesca, e quindi è meglio restare su una prova meno qualificante, però con un successo scolastico, che non andare oltre rendendo così improbabile l’esito positivo della prova.
Anche questo può sembrare ovvio se vi pesate bene. Solo che sto puntualizzando un’altra di quelle cose che non si fanno. Perché non si fanno? Perché si trascura questo elemento, perché si da più importanza alla qualità della prova che non al vissuto dell’alunno. Il tessuto dell’alunno, invece, è decisamente più importante della qualità della prova. Da molto di più alla società uno che ha poche cose, ma le fa con padronanza, di uno che magari qualche volta gli è riuscito di fare grandi cose, però è convinto di essere una rapa. Se non altro è più risentito, più suscettibile, più nervoso, ha un’instabilità maggiore, è più una persona assolutamente meno stabile sotto tutti i punti di vista. E il fatto che qualche volta sia riuscito a fare qualcosa di più eccellente, non cambia niente se non nel fatto che quando lui si vuole illudere, si illude che è un grande. Ma basta che gli vada un minimo male qualche cosa che ridiventa una persona che pensa delle cose pessime di se stesso.
Tra l’altro gli psicologi clinici direbbero tutti in coro, visto che sono d’accordo, che per il ragazzo che impara in questo modo, se per altri motivi ha già tendenza alla nevrotizzazione, questo fatto lo aiuterà ad organizzare meglio la nevrosi. Vale a dire, questa instabilità della sua rappresentazione di sé come soggetto di apprendimento, va a comporre in modo più architettonico il suo stato di nevrosi.
Almeno su questo punto cerchiamo di essere un po’ rigorosi a scuola, perché possibile farlo e cercare di ritornare su prove, magari rendendole più varie in modo da essere meno noiose, ma è meglio ritornare su coefficienti di difficoltà inferiori piuttosto che proporre delle prove che aumentano la probabilità di insuccesso dell’alunno. A questo punto forse è venuto il momento di dire qualcosa sui coefficienti di difficoltà delle prove. Qui sono anch’io in difficoltà perché il discorso sarebbe così lungo e lo riduco quindi al suo essenziale, i suoi aspetti essenziali senza fare l’errore di semplificarlo. Voglio renderlo soltanto sostanziale ne passaggi fondamentali. Per questo io ringrazio, culturalmente parlando, gli sforzi fatti da Piaget nel corso dei suoi studi.