Parte II : Vivere la cecità – Ragazzi di strada

Avevo 13 anni quando cominciai a prediligere la compagnia dei cosiddetti ragazzi di strada.
Familiari, professori, sacerdoti rimasero tutti sorpresi e contrariati da questo mio brusco e imprevisto cambiamento.
Essi compresero ancor meno questa mia trasformazione quando si resero conto che io continuavo ad amare lo studio, la scuola e l’impegno sociale e ciononostante trascorrevo una buona parte del mio tempo libero con ragazzi, per così dire, maleducati, aggressivi e antisociali, che fuggivano dalla vita scolastica e deridevano le autorità costituite.
Ad onor del vero devo dire che anche questi ragazzi non capivano questa mia scelta, ma fiutavano per istinto la sincerità del mio avvicinamento e ciò bastava a placare la loro naturale diffidenza.
Per quanto mi riguarda, in loro compagnia io vivevo un immenso sentimento di liberazione. Questo mi accadeva anche quando i loro riti di iniziazione mi sottoponevano a prove dure, pericolose e frustranti.
Infatti io capivo che simili prove miravano a farmi divenire un membro regolare del gruppo e ciò gratificava il mio senso di appartenenza.
Per altro quando si trattava di compiere azioni che io ritenevo moralmente riprovevoli, avevo quasi sempre la forza di non partecipare e di esprimere con franchezza e rispetto il mio dissenso.
Mi piaceva tanto il modo con cui ci accampavamo sulle panchine dei giardini pubblici, tra gli alberi lungo la ferrovia, dentro i palazzi diroccati, semidistrutti dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Insieme a loro riuscivo a trascorrere ore spensierate, talvolta inquiete, ma sempre confortate dal sentimento della partecipazione.
Il fatto che ci vedessi così poco era più che altro un motivo di scherzi e di denigrazione, vissuta con semplicità aggressiva, forse un po’ sadica, ma comunque priva di penosi turbamenti.
In altre parole, essi deridevano il mio difetto visivo così come deridevano i difetti di ciascuno.
Dai loro scherzi la mia diversità usciva legittimata e sdrammatizzata.
Le aggressioni un po’ sadiche rappresentavano per ciascuno di noi una tassa di partecipazione al gruppo, accompagnata però da emozioni affettuose di fiducia e di solidarietà.
Malgrado numerosi e ripetuti tentativi, non sono mai riuscito a far capire queste cose a coloro che mi hanno voluto più bene e che proprio per questo hanno nutrito e nutrono tuttora, nel confronto con la mia diversità, vissuti di pena e di profondo turbamento.
Con il passare degli anni ho conosciuto modalità di coesistenza sempre migliori e fortunatamente ho potuto estendere sempre di più i gradi della mia libertà personale e le dimensioni della mia vita sociale.
Quei ragazzi di strada sono comunque rimasti nel mio ricordo come i principali protagonisti del mio processo di liberazione.
Infatti affermando come potevano la loro diversità hanno saputo e voluto ospitare anche la mia, offrendomi la possibilità di concepire i limiti di un ordine sociale troppo sostenuto dalla logica dell’abitudine e dal bisogno del prevedibile.