Lezioni – Corsi di aggiornamento

“Identità professionale dell’insegnante e l’articolazione delle funzioni docenti nell’ambito dell’autonomia”

LEZIONE III: La struttura dell’io

Mettiamo al primo posto l’uso della percezione. Uno ha dei sensi, impara ad usarli, impara a guardare, a toccare. A servirsi cioè di questi sensi per guardarsi intorno, per avere un contatto reale con il mondo che lo circonda. Mica è scontato, non è che uno ha i sensi e li adopera, magari fosse così, i sensi uno li ha e spesso non li sa usare, perché non gli è stato insegnato ad usarli. Per cui uno non è capace di ascoltare, non è capace di guardare con attenzione, non è capace di fare queste cose con un’attenzione diffusa, una tensione stabile, un’attenzione anche acuta in certi momenti e rispetto a certe cose. Quindi l’educazione percettiva è una delle componenti centrali, diciamo di questo tentativo di aiutare le forze dell’io a svilupparsi. Che fate, lo fate attraverso il cinema lo sviluppo del vedere o attraverso la realtà? Perché c’è differenza tra cinema e realtà, con tutto il rispetto per il cinema, un mezzo del quale io sono realmente innamorato. Perché il cinema è già fatto da qualcuno che ha guardato per voi e vi presenta un prodotto da vedere. È sicuro che ha trovato un modo per farvi vedere come vede lui, che può essere bellissimo e interessantissimo, ma più come rapporto interpersonale che come un rapporto tra voi e la realtà. In fondo noi da un il film impariamo a vedere come vede il regista. Vale a dire l’educazione all’immagine se l’è fatta lui, non noi, a noi ce la mostra così come se l’è costruita. La stessa voce pure per un dipinto. Ogni tanto vedo un insegnate che in classe fa educazione all’immagine prendendo, non so, da Picasso a Renoir, o chi volete voi. È uno strano modo di fare l’educazione all’immagine perché si impara a vedere come vede Renoir, che vede in modo splendido, però sarebbe forse meglio cominciare a vedere come vede ciascuno di noi, coi propri mezzi. Poi può anche fare dei paralleli, trovare qualche impulso, qualche sollecitazione da quella dei grandi esperti del vedere e del dipingere. Ma se uno non impara a guardare con le proprie possibilità, sarà difficile poi. Allora dobbiamo imparare come vede l’alunno e se mai poi in un momento successivo possiamo fare dei paralleli. Si trovano punti in comune e punti di contrasto. Quindi la forza del percepire è una forza importantissima, perché se impara ciò sta un grosso passo avanti.
Seconda forza dell’Io è imparare ad utilizzare la lingua come strumento linguistico. La funzione linguistica intesa proprio come una funzione di comunicazione delle proprie esperienze, è anch’essa centrale. Sarebbe l’espressività attraverso il linguaggio. Allora io non è che se parlo di fiume Adige non c’entra l’espressività del linguaggio, come pure come lo guardo.
Insisto sul fatto che non posso fare esperienze su tutto, ma devo saper scegliere quali sono le esperienze che intendo fare durante l’anno o che vi possano portare a questo benedetto concetto di istruzione educativa.
Terza funzione dell’Io: il ragionamento. Imparare ad usare i dati della realtà per ragionare. Un momento come questo diventa quasi sacro come funzione, nel senso che il ragionamento pare abbia dei piccoli scricchiolii in questa fase. Tutti gli antropologi culturali si stanno smaniando uno più dell’altro nel tentare di farci capire che c’è un certo ritorno del pensiero magico. La gente si convince delle cose non utilizzando tutti i dati della realtà ma scegliendone alcuni che le stanno più simpatici, e attraverso quelli decidono che si è convinta che sta bene che sia così perché l’intuito vale più del ragionamento.
Ecco una delle rasi che si ascolta più frequentemente oggi, è quella di dire “Io mi fido del mio intuito perché più volte ho visto che poi, dai e dai, le cose stanno come avevo capito fin dal primo momento” e spesso però questi gli studiosi della comunicazione l’ hanno chiamata profezia che si autodetermina, nel senso che se uno magari si convince che è fatto così, poi farà di tutto per convincersi che era proprio così perché interessa di avere più fede nel proprio intuito che capire effettivamente come stanno le cose. E se uno ce la mette tutta, ci riesce, gli fa pure magari bene alla salute. Quello che sicuramente non ve bene è che questa persona diventa poco capace di fare una ricerca rigorosa sulla realtà. Cioè un esame di realtà quella persona non lo fa, il suo rapporto con la realtà diminuisce.
Direbbe Federico Fellini “Aumenta il coefficiente di delirio personale”, che può essere anche una cosa stupenda perché a volte il delirio ci aiuta a vivere, soltanto che non ci aiuta certo a comunicare con gli altri, questo è poco ma sicuro. Allora nei confronti dell’alunno dovremmo evitare di commettere quest’errore, poi se lui lo vorrà fare da grande da solo lo farà, ma da piccolo almeno dovrebbe essere aiutato ad usare i dati di realtà per ragionare veramente. Ragionare significa usare la logica per usare la capacità di calibrazione dei dati tra di loro, per arrivare a risultati quanto meno veri nel senso di un’alta probabilità.
Quindi l’esame di realtà è un’altra componente delle forze dell’Io.
Poi viene una questione che sicuramente vi troverà ancora più sensibili, quella che si chiama controllo dell’ansia. Ed il controllo dell’ansia è un’altra di queste forze dell’Io che farebbe parte del cosiddetto sviluppo armonico della personalità.
Come si cresce nel controllo dell’ansia? per esempio si impara crescendo, che l’ansia non è una cosa così estranea all’esistenza umana, ma che è una cosa che non va vista come una malattia.
Se c’è l’ansia, vuol dire che c’è qualcosa che non va, se c’è l’ansia può darsi semplicemente che si sta vivendo, perché l’ansia è una delle componenti della vita che proprio perché coraggiosa è anche un po’ rischiosa. Allora è difficile per esempio vivere in modo agevole, vivere quindi in modo desideroso, vivere con entusiasmo e non vivere una certa quota di rischio. Se uno vuole una garanzia del vivere, probabilmente cercherà un quieto vivere in cui l’ansia non c’è, in una prima fase, ma magari poi si ripresenta poi sotto forma ancor più profonda, perché sarà un’angoscia dovuta proprio a una mancanza di rischio che ci fa pensare ad un rischio ancora più grosso, e quindi è una fregatura. Per cui tutti quelli che vivono nella costante fatica di togliere dalla propria vita i rischi, probabilmente vivono un’angoscia superiore a chi invece i rischi li affronta. Perché chi li affronta ha imparato a contenere nell’orizzonte della propria esperienza anche un certo margine di rischio, chi invece è abituato a togliere di mezzo questi rischi, si trova come senza anticorpi rispetto al rischio e siccome il rischio è comunque ineliminabile, quanto meno dalla nostra immaginazione, dalla nostra fantasia, diventa un incubo.
Allora il controllo dell’ansia è legato proprio alla quota di iniziativa, di partecipazione, di slancio con cui il bambino vive la sua vita: più un bambino vive aiutato a crescere in una condizione pratica del desiderio, tanti più sarà capace poi di controllare, la propria ansia perché per lui le prove, intese come prove del vivere, diventano un caso quotidiano.
Non sto parlando di quelli de “Il pericolo è il mio mestiere”; quelli non sono coraggiosi, quelli sono persone temerarie che hanno qualcosa di diverso, di molto meno normale, sono quelli che vivono usando la paura come antidepressivo. Sono quindi fondamentalmente dei repressi che nel rischio eccessivo vivono una sorta di cocaina psicologica. Non esistono solo le sostanza chimiche come antidepressivo esistono anche delle pratiche singolari. Non so, chi fa degli sport che ogni anno qualcuno muore, che è una cosa non dico probabile, ma c’è un rischio molto forte, sicuramente nel suo animo c’è qualcosa per cui ha bisogno di quegli stimoli e fa parte di un modo singolare dell’esistere, lecito, intendiamoci, neanche patologico, però certo un po’ improbabile. Quindi il controllo dell’ansia è una questione come le altre, che va sviluppata nel bambino.
Se ad un bambino gli date delle prove che supera 9 volte su 10, gli viene la cosiddetta noia. Se andate a vedere un buon vocabolario, mettiamo il Battaglia, andate a vedere la parola noia poi vedrete, ma anche sul Devoto lo trovate, che la parola noia viene anche da odio della vita, la parola noia non è soltanto un annoiarsi in modo così tranquillo, nella noia c’è anche una componente persecutoria. Chi si annoia vive emozioni comunque negative.
Dicevano i nostri bisnonni che “L’ozio è il padre di tutti i vizi” proprio perché chi comincia a sentire la mancanza di stimoli ad esistere, comincia a provare proprio un sentimento negativo dell’esistere. Non è chi semplicemente si annoia come fatto neutro, la noia è veramente pericolosa nella vita. Se non ne siete convinti andate a leggere lo Zibaldone di Leopardi dove ci sono decine e decine di pagine dedicate a ciò, in modo neanche psicologico, come aa lui, da poeta, le cose le dice ancor più chiaramente.
L’ultimo punto, che è ancora più dolente, mi scuso non è colpa mia ma la realtà è così, è la cosiddetta tolleranza alla frustrazione. Che è un capitolo non certo da poco nella scuola, che riguarda un po’ tutti noi, non solo gli alunni. Cioè la tolleranza della frustrazione è un’altra fortissima componente dell’Io: vale a dire vedere nell’insuccesso una tappa del successo, che quindi è perfettamente connessa con le capacità di progettare. Non può progettare chi ha una forte intolleranza alla frustrazione, perché la strada è lunga e sicuramente nel corso della strada ci sono momenti negativi che ci fanno perdere di vista l’obiettivo, chiaramente ci fermano, ci fanno tornare indietro, ci fanno cambiare strada, non ci fanno elaborare. Ripeto la questione dell’insuccesso transitorio come fase di una via verso il successo, quando dico successo dico raggiungimento del traguardo che mi sono posto, non parlo di successo in genere.
E come si raggiunge questa? Si raggiunge attraverso la progettazione, per cui la programmazione in un certo senso è proprio insegnare al bambino a programmare, a vedere un percorso affatto di tappe successive perché solo così si supera la frustrazione. Chi non ha obiettivi di un passetto alla volta, la frustrazione è intollerabile, devi passare per forza subito ad un altro desiderio per vedere se questa volta hai successo, allora chiodo scaccia chiodo. Allora insegnare a programmare è forse il dato principale della programmazione, una programmazione con la quale non si insegna a programmare, è una finta programmazione.
Infatti la verifica io la andrei a fare proprio qui, quando dice quelle persone che hanno programmato, andiamo a vedere la fine dell’anno come a loro volta gli alunni si sono programmati la strada. Come sono stati guidati, aiutati a programmarsi una strada che è più lunga dei singoli tratti del percorso, vissuti uno per uno.
Ci mancherebbe altro che un pianista che fa da 10 anni di pianoforte a l conservatorio si sgomenta perché magari un certo autore non gli riesce di farlo, perché una sesta volante non gli riesce di farla perché ha le dita combinate in quella certa maniera che non gli funzionano bene. Deve assolutamente pensare che quella è solo una cosa, che intanto lui va avanti e poi ci tornerà dopo, che poco a poco svilupperà la possibilità, sviluppando altre disposizioni digitali che gli rinforzando la mano e che magari poi ci riesce.
Se non fa questo ragionamento, è fregato . si impunta su quella cosa e la fa diventare penosa, oppure se la dimentica, la scarta dalle sue cose e diventa un pianista con delle lacune. In tutte e due i casi non è fatto una programmazione, è andato a braccio.
Lo stesso discorso vale per le lacune nelle varie materie, storia, ilo soia, chi ha la idiosincrasia per le Guerre d’Indipendenza, non è mica un passaggio della storia trascurabile, e non le studia…per dire che la programmazione prima o poi si riconnette con la capacità di ragionare e con l’esame di realtà.
Vi ho voluto fare questo quadro rispetto alle forze dell’Io che poi se lo volete combinare con le forze dell’Io così come le vede Erickson, che le vede in tutt’altra dimensione, poi però le collegare con questa, diventa di maggior arricchimento per quello che è un vostro quadro della realtà, come concetto di sviluppo della personalità.
Erickson parla di fiducia di base, parla d’autonomia, parla d’iniziativa parla d’identità personale del ruolo, quindi capacità di assumere un ruolo nella società, ruolo di studente, ruolo d’amico e così via. A noi interessa poco perché le forze dell’Io che vanno oltre la scuola, rappresentano appunto, dopo l’identità c’è la capacità di intimità, capacità di essere originali, la creatività, di prendersi cura di se stessi e degli altri e poi per ultimo il trarre gusto dal vivere qualitativo. C’è una forza dell’Io che Erickson reputa principale perché è poi la somma , il punto di riferimento finale che ti dà la possibilità, comunque vadano le cose, di saper prendere, un po’ secondo anche la ilo soia Zen, quell’ultima fragolina che trovi prima di cascare nel burrone e la mangi lo stesso perché dici che è meglio che niente.
Che insomma non c’è da buttare via questa dote delle spirito di sapersi prendere comunque tutto quello che c’è da prendere come gusto del vivere. Tutto questo fa parte di quello che noi con una parola, sarà usata, chiamiamo sviluppo della personalità.
Allora riusciamo a pensare che l’Adige per quanto magnifico come fiume è comunque in funzione di questo sviluppo e allora abbiamo sull’orizzonte principalmente questo sviluppo e allora la programmazione è programmazione educativa e poi certamente didattica.
Altrimenti scivoliamo in un didatticismo nel quale spesso siamo già scivolati in questi ultimi due decenni, che secondo me non ci aiuta a capire che cos’ è la scuola e quindi ritorno al punto d’inizio. Cioè la cosa più difficile in una scuola è che un team di docenti si metta assieme perché bisogna farlo assieme, perché fatto da solo viene peggio, perché se ognuno si fa la sua collana d’esperienze cruciali e queste collane diventano 10-11 e tutte queste visite, queste uscite dalla scuola, questi momenti diciamo così territoriali, sia non credo la scuola li possa fare perché in un team di 10 insegnanti, sto ovviamente parlando della scuola secondaria di primo grado, significherebbe 100 giornate d’esperienze cruciali su circa 200 che ce ne sono in tutto l’anno e francamente mi sembra troppo. Quindi anche considerando che magari ciascun insegnante curriculare possa disporre di una o due uscite personali, ma quelle altre otto devono essere comuni. E quindi vanno decise una decina di esperienze che hanno un sapore transdisciplinare sulla base delle quali poi ciascuno si ricava la base per un discorso disciplinare personale collegati però almeno con 8 esperienze transdisciplinari.
Che cosa intendo con il concetto di tran disciplinare? Intendo soprattutto, prendete ad esempio la visita alle Grotte di Frasassi, che tipo di visita è, per usare un linguaggio un po’ angusto: è una visita d’italiano, una visita di geografia, una visita di matematica? Che visita è? Perché se uno di voi dice d’osservazioni scientifiche, non è che ha torto ma non ha nemmeno ragione. Perché è tutto, se ci pensate. È tutto perché ditemi voi se c’è qualche disciplina che può essere esclusa da una visita ad una grotta del genere. Essendo comunque un qualcosa d’ingegnoso, qualcosa di bello e anche qualcosa di vero, non può che riguardare tutte le discipline, perché merita di essere descritta, merita di essere in qualche modo almeno misurata, merita di essere compresa almeno in alcuni aspetti della sua misteriosità, merita di essere riconosciuta nella sua storia e così via. Per cui c’è un elemento della realtà transdisciplinare, come tutti gli elementi della realtà. Solo perché uno sceglie le Grotte di Frasassi perché uno sceglie le cose più affascinanti, non può andare a vedere come esperienza cruciale di quest’anno il prato sotto casa. Tutto si può fare nella vita, e magari è pure interessante, e magari ha un prato sotto casa che è la fine del mondo. Non mi sembra però che sia un bel modo di interessare un alunno. Non ne faccio però una questione di principio. In una scuola che sta facendo un certo particolare studio, per esempio su come è stato realizzato il Piano regolatore a Roma negli ultimi 50 anni, può anche essere interessante. Quindi in un contesto particolare di programmazione può diventare anche un prato una cosa molto interessante.
Purchè sempre abbiamo in mente che la realtà è in funzione della nostra crescita, è un occasione per crescere, per migliorare, per capire, per godersi la realtà stessa.
E il modo migliore per godersi la realtà è quello di viverla, di capirla, di parteciparla. Le informazioni diventano poi corredo di tutto questo, guai se le informazioni diventano la parte centrale di questo discorso.
Poi stiamo bene a lamentarci perché gli alunni non hanno voglia di studiare, sono demotivati. Scusate, ma sono proprio convinto che sarebbe strano il contrario, nel momento in cui capiscono che vanno a scuola per essere informati.
Perché sul piano della struttura dell’esistenza essere informati è una forma di passività, di illegittimità, è una forma di sottomissione organizzata.
Allora va bene che la scuola è una cosa che abbiamo scelto noi adulti non certamente i bambini, però proprio perché l’abbiamo scelta noi dobbiamo organizzare per i bambini una vita attiva, attiva non nel senso dei salti o della capriole, ma attiva nel senso della mente. Deve il bambino deve riuscire a sperimentare che se pensa in qualche modo viene valutato, anche se pensa male, perché è importante che pensi. Tra uno che pensa male ed uno che non pensa, vale milioni di volte di più scolasticamente parlando quello che pensa male. E invece non è così, perché è quello che è recettivo e non pensa, che oggi come oggi a scuola si trova abbastanza bene. Magari non prenderà il massimo dei punteggi, ma insomma è molto ben organizzato dentro la scuola. E quindi in questo senso la programmazione diventa anche programmazione delle attività degli alunni.
Allora cerchiamo di fare uno schema. Quindi al centro della programmazione metto una serie, una sequenza di esperienze educative transdisciplinare, arricchite poi, in una seconda fase, da ciascun insegnante curriculare, con alcune esperienze, diciamo così, interdisciplinari, cioè organizzate da lui e da qualche altro collega. Poi su questo impianto costruisco i testi, che non è detto che i testi debbano essere il libro di testo, questo è ormai abbastanza riconosciuto anche se ancora molte famiglie non si rassegnano all’idea che i figli non hanno il libro di testo preciso, da pagina 1 a 456. Però è anche vero che a poco a poco, se la scuola cambia, anche i genitori, sempre nei limiti del possibile, dovranno essere aiutati a capire che il concetto di testo è un concetto becero, è un concetto veramente monoculturale. Andava bene quando c’era un piano educativo nazionale, ma non parlo dell’italiano, parlo a livello mondiale.
C’è stata una fase, quindi non pensate al ventennio, non è di quello che sto parlando. In tutti i paesi del mondo ci sono state delle fasi in cui c’erano dei testi nazionali in cui si diceva “Il programma ministeriale è tot, il libro di testo è la rappresentazione del programma ministeriale, e quindi che volete?”. Ma lì c’entrava anche l’economia di un certo tipo , c’entrava l’economia di mercato che era ridotta e aveva le caratteristiche di quel tempo. Oggi come oggi non può essere così. Per cui io posso confezionare una serie di frammenti di testo composti insieme da un organigramma che è la programmazione, ipertesti e così via.
L’importante è che capiate o facciamo così oppure i ragazzi non potranno avere la sensazione di costruire i loro curriculum di studi durante l’anno e si potranno appropriare così di quella che è una disciplina partendo dalle proprie dimensioni del vivere.
Ecco perché la programmazione diventa effettivamente una delle questioni centrali, nevralgiche della scuola attuale. Perché è chiaro che cosa va a ledere, soprattutto nella scuola media superiore, va a ledere l’habitus ad avere degli appunti e una prassi sequenziale che io insegnante porto avanti da 30 anni nello stesso modo. E qui è veramente pazzesco perché la forza delle abitudini dentro di noi è tremenda, la riflessione per cui la programmazione ha trovato così tante difficoltà, da un lato è che è stata presentata malissimo perché non era conosciuta nemmeno da parte di chi l’ha proposta, perché in Italia ancora di programmazione nemmeno a livello economico nessuno ha voglia di conoscere perché ognuno si riserva poi di fare le proprie scelte al momento giusto, per cui ci si vuole responsabilizzare a quella che è una programmazione.
Ma il fatto più grave, al di là di questa cattiva presentazione della programmazione, anche sul versante didattico, come ho detto all’inizio, cioè l’altro grande limite che sta in ciascuno di noi è la forza dell’abitudine che ci toglie la voglia di fare qualcosa di diverso. E quindi combatterla diventa veramente qualcosa che si può riuscire soltanto tutti insieme, avendo la sensazione di darsi una mano l’uno con l’altro.
Da soli rompere le proprie abitudini è più frutto d’angoscia che non dispiacere, all’inizio.
E allora soprattutto quegli insegnanti che hanno già un metodo, quindi in un certo senso anche quelli che già lavorano meglio, diventano quasi naturalmente i principali antagonisti della programmazione, perché quelli sono coscienti che già loro comunque frequentavano una scuola che funzionava e quindi perché rimodernarsi per lavorare assieme a qualcuno che non ha voglia di lavorare? Continuano il lavoro per proprio conto e non si vogliono mischiare con gli altri. E qui viene fuori quella tendenza molto pratica, che è tipica sia dell’insegnante del passato che del presente, che è l’ostacolo principale da rimuovere.
Per cui la programmazione diventa un qualcosa che ci mette di fronte ad un insieme di cambiamenti ed è difficile accettare che per stare meglio si sta peggio. Serve una tolleranza alla frustrazione di chi ha in mente un percorso per cui pensa che ora sta peggio e soprattutto gli insegnanti che viaggiano per l’ultima decade dell’insegnamento, questo discorso chiaramente lo digeriscono ancora peggio degli altri perché dicono “ Ma io potevo stare negli ultimi anni tranquillo, invece devo stare peggio di modo che possono stare meglio gli altri dopo che sarò andato in pensione”: e purtroppo umanamente parlando è uno scoglio veramente difficile da superare.
Per cui consiglio il Capo d’Istituto, insomma avrei seri dubbi sul sollecitare insegnati che viaggiano oltre 55 anni su questioni di questo tipo, cercheremo di non farlo proprio a loro questo discorso della programmazione. Qui sta la questione del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà. Io debbo partire con delle considerazioni analitiche ragionevoli che mi portano a dire quello che ho detto, fatte salve le dovute eccezioni, non solo benvenute, ma che rappresentano motivo d’entusiasmo, per cui uno fa sempre a tempo a rivedere questo concetto, comunque bisognerebbe in ogni caso andare prima a verificare come stanno le cose. Perché io posso convalidare ulteriormente quello che ho detto perché io conosco più di una scuola di insegnanti che anno superato la sessantina e che rappresentano dei treiners. Purtroppo la media generale non è a vantaggio di questo discorso, perché è proprio così, non lo invento. Non lo so, dico a livello di stato d’animo, ma sono dati purtroppo e sono anche molto comprensibili perché più delle volte l’insegnate che arriva a 60 anni con la noia, magari, il più delle volte è arrivato in questo decennio a 60 anni con il disamora mento per la scuola, con la frustrazione cronica e allora magari è pure parzialmente causa di se stesso e quando ci è arrivato chiaramente non è che gli possiamo fare una colpa. Mi diceva la collega nel venire che ci sono anche molti giovani che hanno 30 anni e che sono già abbastanza demotivati, magari ci sono già entrati demotivati nella scuola. Anche questo può essere vero.
Il concetto stesso di autonomia parte dal presupposto dell’utilizzazione delle risorse reali che ci sono in una scuola. Io credo che in tutte le istituzioni scolastiche in cui verranno utilizzate al meglio le risorse presenti, quelle scuole avranno sicuramente un miglioramento netto, purchè si scelgano effettivamente le risorse reali e non risorse formali, che a volte non coincidono. Questo sarà il vero problema dei prossimi anni. Se ci sarà una capacità di scegliere tra le risorse reali oppure su continuerà a restare sul burocratico o sul cartolare. Questa sarà la prova attraverso cui passerà la qualità dell’autonomia scolastica.
E allora quei capi d’istituto che sapranno fare scelte in base effettivamente a fatti e non a pezzi di carta, quelli verranno anche contestati di meno perché fatti contano da soli. Quelli invece che vedranno i meriti scritti sugli attestati, probabilmente verranno contestati di più perché così come informazione ed esperienza non sempre coincidono, qui l’abbinamento ci sta fin troppo bene.
Direbbe Borges che quando uno la realtà del proprio territorio la guarda sulla carta geografica corre il rischio di vedere se il territorio non lo consoce. La carta geografica serve a chi il territorio lo ha anche percorso, in parte, ma se uno si regola solo sulla carta geografica, prende degli sbandamenti assurdi, anche quando, dice Borges, la carta geografica dovesse diventare grande tanto quanto il territorio. Perché pur se diventa grande quanto il territorio, la carta geografica resta carta geografica per cui la differenza abissale, dice lui, è che nelle sabbie mobili su carta geografica non ti ci affondi. Ci trovi solo scritto sabbie mobili, invece nel territorio ci affondi veramente, e non è la stessa cosa sentire sabbie mobili e affondare con i piedi dentro una sabbia mobile senza un altro che ti tira la corda. A chi è capitato sa che non è affatto la stessa cosa e allora continuare a confondere le carte e i fatti come fanno certi nostri burocrati, e non sono pochi, che hanno il cannocchiale fatto di carte documentali e guardano lontano con questi cannocchiali fatti di documenti e non capiscono quello che vogliono, la scuola tornerà ad essere una confutazione di esperienze reciproche, fatto con civiltà, a discutere sul proprio metodo, sulla bontà del metodo, insieme con l’altro anche magari crede in altri metodi.
Questa è la scuola di domani se vogliamo pensare a una scuola migliore, una scuola in cui ci sia il luogo per discutere e poi ci sia il momento per lavorare perché si deve essere poi capaci di trovare dei punti in comune per mettere insieme poi queste differenze in alcuni punti di somiglianza, altrimenti si discute soltanto.
Questa è la scommessa.. questo può accadere soltanto se chi comanda saprà scegliere le risorse, e come si fa in qualsiasi buona famiglia, come si fa in qualsiasi buona azienda, non dico l’azienda per non dare il senso aziendalistico che fa pure un po’ di depressione, dico famiglia perché in famiglia vale lo stesso discorso.
Perché un padre che ha tre figli ed un pezzo di terra, se decide che quel pezzo di terra deve progredire in qualche modo in termini di risorse, in qualche modo andrà a sollecitare quello che gli sembra più adatto ad utilizzare quel pezzo di terra. Difficilmente penserà di dividerla in tre. Cercherà di trovare un modo di soddisfare gli altri due ma di darlo in mano a chi.. perché se fa la divisione in tre, seminerà soltanto zizzania tra i figli.
E allora il coraggio sta proprio in quello che diceva Don Lorenzo Milani “fare parti disuguali tra disuguali, in modo che ciascuno possa avere il senso del ritorno rispetto alla propria caratteristica personalità”. Non rispetto alla matematica, nemmeno la matematica, all’aritmetica dell’algoritmo diviso 3.
In questo senso l’autonomia va considerata proprio come un’arte, non come una scienza. Di scientifico non ha niente, è soprattutto un’arte, un’arte del saper governare, un’arte del saper scegliere, ed assumersi le proprie responsabilità, ciascuno il proprio ruolo dentro la distribuzione.
Non è semplice però diventa magari anche semplice se l’obiettivo è chiaro: è che l’utenza diventa il primo riferimento obbligato del discorso. Che poi significa che quando l’utenza sta al primo posto, di fatto ci guadagnano tutti. Perché avendo come direzione del timone l’utenza, i vantaggi poi sono pure nostri perché quella scuola si basa sulla qualità dell’utenza e quindi del servizio fornito, chiaramente nel giro di pochi anni ne avrà anche un vantaggio personale.