Lezioni – Corsi di aggiornamento

“Identità professionale dell’insegnante e l’articolazione delle funzioni docenti nell’ambito dell’autonomia”

LEZIONE II: Il Vademecum della facilitazione ad apprendere

In primo luogo, ed in parte riassume quanto detto prima, ma vi potete fare una scaletta come volete voi. In questo caso è bene prendere appunti, se non altro per avere davanti lo schema.

1.
avvicinare i contenuti della disciplina all’esistenza degli alunni, che significa tradotto in altro modo trovare nell’esistenza degli alunni esperienze nelle quali sia già contenuta la problematica della disciplina, anche se in modo non disciplinare. Questo significa che non si può facilitare l’apprendimento senza conoscere l’esistenza degli alunni, che facilitare l’apprendimento senza conoscere l’esistenza degli alunni, che non si può facilitare l’apprendimento senza saper riconoscere nelle esistenze degli alunni gli aspetti disciplinari, anche se mascherati. Mascherati da cosa? Mascherati dalla dimensione transdisciplinare dell’esistenza quotidiana. Non è che quando faccio un qualsiasi lavoro a casa, ad esempio, sto tagliando la carne, non è che penso che sto facendo una divisione in senso disciplinare. Sono preso da un’altra accezione del termine di vivere, che superficialmente non mi sembra che ciò entri per niente con quello che si fa a scuola. Quando invece non solo c’entra, ma è la stessa cosa, nel suo contenuto sia logico che nel suo contenuto teorico applicativo. Se non riesco a trovare la contiguità, il contatto tra questi due aspetti, quello esperienziale, transdisciplinare e quello disciplinare, tu court, vuol dire che ho studiato in modo formale, in modo decisamente troppo scolastico quindi, ho bisogno di rivedere i contenuti della mia disciplina in modo più vivo, più complesso. Debbo valutare numericamente i successi e gli insuccessi scolastici dell’alunno per vedere come stanno le cose nel senso che dicevo prima, 6 su 10 ed eventualmente le cose stessero male, devo riuscire per facilitare l’apprendimento dell’alunno a sdrammatizzare la famosa questione del compito e dell’esito della prova. Questo è un punto di nevralgica importanza. Non è tanto importante capire se l’alunno riesce o non riesce, è più importante capire quali condizioni concorrono finchè l’alunno riesca. È proprio un problema posto in maniera diversa. Noi che abbiamo vissuto, noi stessi, per la scuola che abbiamo frequentato, noi piccoli in modo tribale la questione degli esami, talmente siamo affascinati dall’esito negativo delle prove, affascinati in senso terrifico. Il fascino non è legato soltanto al piacere. Sto parlando di esami, non di altro, anche se si possono mettere vicino tante altre cose. Però esiste il sadismo degli esami. Ci sono persone frustrate che hanno bisogno di avvertire la possibilità di impaurire qualcun altro perché nella paura dell’altro edificano la propria forza e quindi si eccitano. Si eccitano non necessariamente nel senso erotico del termine, si eccitano comunque di una gaiezza intellettiva. Queste persone di fronte all’alunno che ha difficoltà di apprendimento sono pericolose perché non soltanto influiscono decisamente in modo nocivo sullo sviluppo dell’apprendimento ma influiscono nocivamente anche sullo sviluppo complessivo dell’alunno. Nel senso che rafforzano la sua tendenza a regredire, a fuggire dalle prove. Se invece le prove fossero, uscendo dal tribalismo dell’antichità, questa è una tradizione che possiamo superare, non è detto che ci dobbiamo restare affezionati anche perché non ne vedo l’utilità. Possiamo passare però da prove in cui viene differenziata la riuscita, il che mitiga la questione. Allora io posso riuscire con una mediazione per, che certamente fa capire che se c’è bisogno della mediazione vuol dire che ci devo riuscire per orza solo se qualcuno mi aiuta, però io intanto alla fine del compito ci arrivo, e questa è la questione importante. Quindi facilitare l’apprendimento significa aumentare di molto il numero delle prove nelle quali comunque o in un modo o nell’altro si arriva alla fine. La compiutezza è fondamentale ai fini di una crescita mentale, della dignità della persona. Quindi una persona può fare un compito, con una guida a ragionare in un certo modo che lo porta verso la soluzione, e così magari quasi ci arriva. Poi è chiaro che questo non è un caso clandestino, io nella prova metterò che ha portato a compimento l’esercizio con l’aiuto della mediazione perché mi darà esattamente la misura di quello che lui sa fare. So che me la darà in modo positivo, non in modo negativo. Vale a dire lui riesce a fare quell’esercizio con quelle condizioni favorevoli. È implicito che senza quelle condizioni favorevoli non lo so fare, lo sa pure lui.

2.
Qualcuno mi potrebbe dire “ Ma anche la frustrazione del fallimento è una funzione della vita”. È vero, infatti 1 o 2 prove su 10 in cui fallisce le lascerei pure, se sono 1 o 2 non fa niente. Anzi, è bene che perfino quelli molto bravi capiscano che ci sono delle cose che non sanno fare, anzi con quelli diventa importante metterli anche di fronte a condizioni nelle quali loro falliscono. Perché guai un ragazzo che cresce pensando di saper fare le cose in modo assolutamente al di sopra delle difficoltà, perché poi la prima volta che gli capita una frustrazione quello lì sbatte la testa, o se la prende con chi gli ha dato la prova, oppure dice che è sbagliata la prova stessa. Questo secondo punto, poiché non viene intuito, dato che il nostro inconscio collettivo ci porta a pensare a tutt’altro, ci porta alla prova secca, che è la cosa più laboriosa, quella che per diventare degli esperti nella facilitazione dell’apprendimento bisogna aare anche dei discorsi di qualificazione.

3.
Riguarda le esercitazioni. La funzione di guida dell’insegnante è una funzione che sta quasi in dismissione, come se non dovesse esistere quando invece è una funzione centrale. Meglio fare poche cose, ma che mi danno il tempo di giudicare anche i meno capaci verso la risoluzione di problemi, prendere per mano cioè il bambino e portarlo verso la soluzione, che stare sempre lì ad aspettare che lui lo intuisca da solo. Anche perché è questa famosa attesa dell’insite, così si chiama, vale a dire l’attesa dell’Eureka, forse suona meglio. A volte è un’attesa di un’angoscia veramente distruttiva. In genere l’intuizione, se c’è, c’è quasi subito, e non è che si può fare dei mesi di attesa che a quello si accendono le lampadine in testa. Se non si accende, vuol dire che insieme con lui dobbiamo percorrere la strada dell’apprendimento di quel cero argomento in modo che lui a poco a poco assimili, lo faccia diventare a livello 2. altrimenti è come se io mi incaponisca del fatto che quello è intelligente, e quindi lo deve fare.
Tant’è vero che come consulente, quando sento un’insegnate che mi dice “Io lo so che lui non può e quindi me lo deve fare”, a me questo crea un certo tremolio alla spina dorsale perché avverto, non so, per intuito ma anche per esperienza, che sta per succedere molto probabilmente qualcosa di brutto perché magari non è vero.
C’è quello che si chiama effetto alone, come si chiamava una volta, adesso si preferisce dire effetto Rosenthal, come se arrivato Rosenthal ha detto ciò già detto 10 anni prima da altri, ma che lo chiamavano alone, alone è solo l’aspetto logico della questione, invece a Rosenthal hanno dato questo privilegio. L’effetto alone è semplicemente che magari come quello mi guarda mi da un’idea di brillare di intelligenza, per cui sono convinto che quello capisce e magari non è così. Allora, dopo due o tre volte che ho atteso questa benedetta intuizione e non è arrivata, dovrei essere così flessibile da dire “lasciamo stare, facciamo come se questo non lo capisce” e a poco a poco ce lo porto nel senso di dire “si fa così, si fa così, si fa così”.
A certi insegnanti comportarsi in questo modo sembra di non essere più insegnanti. E questo andrebbe approfondito perché in effetti significa che quelli hanno in testa una funzione di fare lezione non arricchita da una funzione di facilitazione ad apprendere. Come dire “ io ti presento il contenuto della disciplina, ti presento l’esercizio, e poi a te spetta il compito restante ed intuirne l’applicabilità”.
Quando invece molti sono gli alunni che hanno bisogno proprio di questa guida.
I corsi di recupero, potrebbero essere centrati soprattutto su questo, sul fare dei corsi di apprendimento con guida in modo da sbloccare quello che è un abitua mentale di “non so come si fa” a alla fine sapere come si fa.
Sarebbe come un’interrogazione facilitata e guidata. D’altra parte quanti di noi hanno capito certe cose soltanto quando sono stati interrogati dall’insegnate quando eravamo piccoli? Perché l’interrogazione una volta, parlo di quelle interrogazioni fatte non per mettere di fronte alle carenze dell’alunno, ma come delle occasioni per invitarlo alla risoluzione di certe difficoltà. Quelle erano preziose, perché ci davano l’occasione di capire certi procedimenti e poi a poco a poco anche di automatizzarli più o meno a seconda del bisogno.

4.
Quando mi trovo di fronte a bambini che hanno difficoltà di apprendimento, invece di andare a semplificare il programma, nel senso che dicevo all’inizio e che è assolutamente sbagliato, il problema sarebbe quello di ridurre all’essenziale il programma, di sfrondare, di decidere ancor più chiaramente quali sono le parti essenziali di quel programma, perché è chiaro che se ci si deve stare un po’ di tempo, si possono fare meno cose.
Ma se non ce l ho chiaro io, come insegnante, quali sono quelle essenziali, magari penso che tutto è essenziale. Qui ho avuto delle discussioni anche molto accese con gli insegnanti nelle riunioni per materia, perché ci sono insegnanti che della loro disciplina ritengono che sia essenziale tutto, che se tu gli dici di sfrondare sono d’accorso, poi quando gli dici di lasciare, questo no, questo no, questo no. Come se fosse tutto allo stesso livello. Questo non è realistico, perché non c’è una disciplina che ha essenziale tutto e quindi questa capacità di sfrondamento è un’altra questione importantissima.

5.
Quante volte avrete avuto alunni che se tu ti avvicini e ti metti al loro fianco, anche se non li guardi, solo perché gli stai vicino vanno avanti. Come ti allontani si mettono la penna in bocca, guardano fuori dalla finestra, o la finestra interna delle loro cose, bambini quindi con difficoltà di attenzione e di concentrazione. Quelli è inutile, ci possono girare in tondo in tutti i modi, non si tratta di bambini che hanno bisogno di questa vicinanza. Non mi interrompete perché già so quanti di voi sarebbero pronti a dirmi “ come si fa professore, lei parla bene, ma abbiamo 27-29 alunni, se dovessimo fare così con tutti quanto ci vorrebbe al giorno?”. Infatti è vero, ma è l’impostazione e l’atteggiamento che discuto. Voglio dire magari 5 minuti è possibile dedicarglieli. Quello che resta difficile ad un insegnante in genere è capire che 5 minuti per quanto pochi sono molto meglio di niente.
Qualche tempo fa alla tv il Professor Andolfi, professore della facoltà di Psicologia di Roma, professore di Psicologia Relazionale, un grande psicoterapeuta della psicologia relazionale, forse il più grande che c’è in Italia in questo momento, il professor Andolfi, non faccio propaganda perché non ne ha bisogno, dice che sarebbe sufficiente per un padre giocare 4 minuti al giorno con i figli per instaurare con lui un ottimo rapporto dal punto di vista relazionale, purchè siano 4 minuti di gioia reale, non finta, 4 minuti. Per gioco reale si intende quello in cui uno si diverte, quando gli occhi brillano perché, se uno gioca con passione gli occhi brillano, si accende la persona perché nel gioco c’è vivacità. Di quel gioco bastano 4 minuti al giorno. Quindi il problema non è di tempo, perché ritengo che anche quello che fa il peggiore dei lavori, questi 4 minuti li h, è che in questi 4 minuti probabilmente a tutto riesce ad immaginare , a pensare, tranne che, perché non è proprio abituato, a pensare che siano sufficienti. Siccome già si sente in colpa perché ha poco tempo, decide che non può fare nulla. Perché nella sua mortalità c’è che il poco è molto meglio del nulla, e che con il poco si rivoluziona il nulla, non con il tanto.
Per cui a volte ad un bambino basta anche un’esperienza di guida e di vicinanza emozionale di pochi minuti al giorno per capire che la scuola è dalla sua parte, non è contro di lui. E questo si può fare, è praticabile quello che sto dicendo. Solo che noi spesso proprio perché ci sembra troppo poco allora non facciamo nemmeno quello. Non lo dico per infierire, lo dico perché a volte si distrugge anche quel poco di elicità che sarebbe possibile. Lo dico più per noi, si può dire, che per il bambino. È chiaro che vale anche per il bambino.
Direi che questi sono i punti fondamentali. Ci sarebbero anche altri accorgimenti, collegamento con la programmazione, e così via, ma secondo me sarebbe sufficiente osservare almeno un po’ di questi 5 punti che già le cose andrebbero decisamente meglio. Sono convinto però che per sapere almeno un po’ mettere in pratica questi cinque punti non è sufficiente quanto vi ho detto. Anche se è stato probabilmente chiaro perché uno per renderlo praticabile deve dovrebbe almeno fare un corso su questo argomento ed entrare un poco in una dimensione di esercitazione pratica insieme. Non con gli alunni, insieme tra gli adulti, capire quanto è sulla propria pelle, capire come tutti questi cinque aspetti, su di lui o su di lei fanno effetto positivo, almeno questo è necessario. Probabilmente qualcuno di voi lo può anche sperimentare e lo può anche fare autonomamente questo processo. Avvalersi in qualche modo di questi punti su se stesso e vedere quanto sollievo c’è quando una cosa ti viene presentata dalla tua esperienza. È impossibile spiegare, non è che uno esageri, è proprio impossibile a meno che uno non sia addetto ai lavori, non abbia penetrato la materia nella sua formalità, nel suo tecnicismo. Nel momento in cui arriva un altro, che è bravo nella facilitazione ad apprendere, che riesce a far capire dove sta la differenza, perché riesce a capire che al di là di tutte quelle parole la differenza sta in tutt’altre cose e che spiega, però, e magari poi fa fare alcuni esercizi per guidare in quella direzione e far capire il riscontro di quanto detto. Il sollievo che uno prova è enorme. Cioè uno così si libera proprio da una gabbia, si libera, la parola esatta è “si libera dal verbalismo”che c’è in molte discipline e riavvicina finalmente le parole ai fatti e gli sembra che la vita è più bella.
Perché tutte le volte che le parole si allontanano troppo dai fatti, l’idea che ti viene è veramente quella di dissociazione. E spesso noi continuiamo a parlare di cose rispetto alle quali il riscontro con quelli che sono gli elementi pratici della vita quotidiana non c’è.
Ma capite che la scuola è proprio l’istruzione che dovrebbe avvicinare quello che è il vissuto della familiarità, vale a dire il vissuto delle abitudini e della forza delle abitudini al vissuto della socialità che è invece l’elemento del rapporto con la novità con il dinamismo, con l’estensione sia nello spazio che nel tempo.
Questa è la scuola. Se lo farà invece da un tecnicismo verbale o da un disciplinarismo che scollega questi due aspetti invece di avvicinarli.
Poi si chiede il perché della dispersione scolastica. I ragazzi trovano solo motivi sociali, per cui si dice che il problema è quello della malavita, quello di certe disfunzioni del territorio. Tutto è vero, ma è solo una componente. Secondo me la componente principale è ancora questa: cioè il fatto che la struttura scolastica deve decidere se è il bambino che si deve adattare oppure se è lei che in buona parte, certo non del tutto, mantenendo qualcosa di solido, ma è lei che si deve avvicinare alla loro vita quotidiana, a conoscerli e a rispettarli e poi aiutarli a camminare verso la società.