Capitolo 7 – Conoscere la persona cieca – La conoscenza dei ciechi

Sommario:

a. La conoscenza dei ciechi

Mario con due suoi compagni di scuola su un palco durante una rappresentazione teatrale di fine anno. La somiglianza con Peppino di Capri è impressionante...

Mario con due suoi compagni di scuola su un palco durante una rappresentazione teatrale di fine anno. La somiglianza con Peppino di Capri è impressionante...

1. La rappresentazione delle forme spaziali

L’interesse scientifico dei filosofi sulla condizione di cecità si è sviluppato a partire dalla seconda metà del seicento.
La curiosità si è concentrata soprattutto sulla capacità, da parte del cieco nato, di riconoscere e distinguere tra di loro le diverse forme spaziali.
Inizialmente molti pensatori erano convinti che un cieco dalla nascita non potesse distinguere un cubo da una sfera.
Una simile convinzione scaturiva direttamente dal pensiero che fosse la vista e soltanto la vista il senso capace di consentire la concezione dello spazio e delle sue forme.
La discussione su questo argomento rese i ciechi più degni di essere conosciuti e rafforzò gradualmente l’interesse sociale sulla loro condizione umana.
Naturalmente furono i fatti a dimostrare con crescente chiarezza che la mancanza della vista non impedisce la costruzione mentale dello spazio.
I ciechi nati dimostrarono inoltre di poter apprendere, mediante l’uso delle mani, l’alfabeto ordinario in rilievo.
A questo proposito fu il Diderot per primo a capire che le mani avrebbero letto più agevolmente e più rapidamente un alfabeto speciale costituito da puntini in rilievo, poiché il tatto si dimostra più adeguato a percepire il puntino piuttosto che la linea.
Soprattutto mediante l’uso delle mani, i ciechi ebbero la possibilità di esprimere e di comunicare la loro sostanziale normalità intellettiva e la loro capacità di partecipare attivamente alla vita sociale.

2. Quattro sensi al posto di cinque

Anche se il tatto viene generalmente considerato come la vista dei ciechi, è importante comprendere come la vista non possa venire sostituita validamente da un solo senso, considerato nella sua singolarità.
Per organizzare un buon rapporto con la realtà circostante, la persona che non vede ha bisogno di attivare l’insieme dei propri sensi residui, utilizzando interamente le risorse provenienti dalla loro multimedialità complementare.
In particola modo la complementarietà tra il tatto e l’udito ci fa capire come i ciechi possano entrare in contatto con la realtà del mondo e conoscere con apprezzabile efficacia.
Il tatto possiede un campo percettivo molto ridotto e pertanto procede per successione di frammenti spaziali, ma presenta peraltro una capacità di analisi molto raffinata e puntuale.
Viceversa l’udito possiede un campo percettivo notevolmente più esteso, che consente ai ciechi un ampio riferimento spaziale di insieme, ma offre informazioni insufficienti sugli oggetti e sulle caratteristiche particolari dello spazio circostante.
Le informazioni provenienti dall’olfatto, dalle variabili termiche e anemestesiche e dal lavoro dei muscoli impiegati nel movimento, offrono al soggetto non vedente la possibilità di integrare e di arricchire il quadro percettivo, migliorando sensibilmente le qualità della sua conoscenza.
Naturalmente questo non significa che la privazione della vista possa essere sostituita dal patrimonio sensoriale residuo nei suoi aspetti essenzialmente visivi.
Nella mente di un soggetto cieco dalla nascita non c’è la realtà dei colori né di alcun altro fenomeno propriamente visivo. Ciò nonostante possiamo dire che i ciechi ben educati dimostrano un buon senso della realtà e si rappresentano il mondo con efficace chiarezza e misura.
Logicamente la persona che non vede, per conoscere con chiarezza e misura la realtà che lo circonda, è costretta a muoversi e ad osservare più a lungo di una persona vedente.
Per questa ragione la sedentarietà, l’inoperosità delle mani e il verbalismo sono limiti molto gravi in una persona che non vede e rappresentano purtroppo l’immagine consueta di un soggetto non vedente diseducato.

3. La funzione delle informazioni visive

Ancora oggi sono davvero in molti a pensare che gli occhi offrano il vero contatto con la realtà del mondo oggettuale e che pertanto i ciechi, in particolar modo i ciechi dalla nascita, restino di fatto separati dalla realtà nella quale vivono.
Ecco perché si cerca così spesso di trasmettere alla persona non vedente la realtà visiva con le parole, quasi che le parole fossero in grado di portare l’esperienza visiva nella sua mente.
D’altra parte sono molti i ciechi che utilizzano con enfasi le cosiddette parole visive, sospinti dal desiderio di apparire normali e forse di sentirsi almeno un po’ vedenti.
Purtroppo le parole non hanno questa capacità di trasmettere l’esperienza e quando vengono utilizzate a prescindere dall’esperienza producono l’effimero e nocivo fenomeno del verbalismo.
Per l’appunto il verbalismo consiste in una singolare forma di affetto per tante parole che si riferiscono ad oggetti dei quali non si possiede la benché minima esperienza personale.
Il soggetto non vedente ha bisogno di fare esperienza a partire dalla sua condizione sensoriale. Egli può cos ì sperimentare l’efficacia dei propri strumenti percettivi e confidare in essi come base di autonomia e di partecipazione.
Le informazioni verbali sulla realtà visiva potranno arricchire la sua formazione socioculturale e migliorare la sua coscienza sociale come persona non vedente in un mondo di vedenti.
Ben vengano quindi le così dette parole visive, purché non si voglia con esse mimetizzare e squalificare la condizione sensoriale dei soggetti non vedenti.

4. I ricordi visivi di chi ha perduto la vista

I cosiddetti ciechi divenuti rischiano di restare ancorati ad una realtà mentale del passato, che vive soltanto nei loro ricordi.
Infatti per una persona che perda la vista, la cosa più difficile consiste proprio nell’entrare dentro la situazione della cecità e nel vivere con realismo la nuova condizione percettiva.
In altre parole il cieco divenuto rischia di restare un ex vedente, vincolato ai propri ricordi visivi, che si rifiuta di considerare l’efficacia dei propri strumenti percettivi residui.
In simili circostanze è davvero importante aiutare la persona a scoprire la validità del patrimonio percettivo di cui dispone, soprattutto per fare in modo nuovo attività che svolgeva prima di perdere la vista.
Saranno queste esperienze di rinnovamento le più decisive per sollecitare in lui una ridefinizione dell’identità percettiva e la rinascita di un progetto di vita.

5. Sincresi, analisi e sintesi

Un luogo comune molto diffuso consiste nel pensare che i ciechi conoscano la realtà per via analitica e raggiungano la sintesi di ciò che hanno osservato solo attraverso una sorta di assemblaggio immaginativo.
Se ciò fosse vero la mente dei ciechi avrebbe caratteristiche diverse dalla mente comune e tale diversità inciderebbe chissà come, ma quasi certamente, sullo sviluppo del loro pensiero.
Fortunatamente i ciechi percepiscono e pensano come tutti noi. Il loro modo di osservare presenta la comune sequenza di un’impressione globale immediata (sincresi), seguita da una analisi e da una sintesi.
Ciò che distingue i ciechi dai vedenti è soprattutto la qualità della sincresi iniziale, che comunque è presente e fondamentale anche nel caso della persona non vedente.
Nella condizione di cecità l’impressione globale immediata, proprio perché deve prescindere dal contributo della vista, si presenta confusa e scarsa di informazioni oggettuali, tanto da costituire spesso una fonte di equivoci e fraintendimenti.
In altri termini per coloro che non vedono la prima impressione di un ambiente è quasi sempre poco più di una sensazione di insieme, ma pur sempre una rappresentazione globale dove inserire i successivi dati dell’analisi.
Durante questa fase di “prima impressione” la persona non vedente avrebbe bisogno di un aiuto, mediante una presentazione verbale dell’insieme da conoscere e, nelle situazioni più complesse, mediante una rappresentazione plastica dell’ambiente, da osservare con le mani.
Infatti bisogna dire che la successiva esplorazione analitica deve poter poggiare su qualcosa di globale già rappresentato, per non divenire esperienza frammentaria e caotica.
Logicamente la sintesi sarà il naturale compimento dell’operazione, vale a dire la ridefinizione della sincresi iniziale arricchita dalle conoscenze analitiche.
Quando si tratta di osservare ambienti molto complessi dalla fisionomia labirintica, anche i vedenti avvertono il bisogno di guide e di rappresentazioni globali con cui delineare meglio la prima impressione e procedere poi verso l’analisi in modo più consapevole e ragionato.

6. Il movimento guidato dall’immaginazione

L’aspetto che caratterizza meglio la condotta dei ciechi ben educati è la capacità di muoversi e di utilizzare le mani attraverso la guida dell’immaginazione.
Per fare questo occorre avere una rappresentazione chiara del lavoro da svolgere e della realtà nella quale occorre operare.
E’ inoltre necessaria, evidentemente, una buona coordinazione della funzione immaginativa con la funzione motoria.
L’orientamento immaginativo-motorio non ha certo il compito di sostituire l’esperienza percettiva, ma di arricchire e controbilanciare la sua naturale insufficienza.
Un soggetto non vedente che si muova mediante l’uso del bastone bianco ovvero che operi con il legno per costruire un tavolino costituisce un mirabile esempio di attività pratica, sostenuta e qualificata dalla funzione immaginativa.
Purtroppo il movimento dei ciechi, quanto più appare guidato dall’immaginazione e non dagli occhi, presenta una fisionomia perturbante che talvolta sconcerta e preoccupa la cittadinanza.
A questo proposito potrà giovare una migliore familiarità con simili comportamenti, che comunque rappresentano una significativa forma di evoluzione della specie umana e delle sue immense possibilità di adattamento.

7. Che cos’è il buio per i ciechi?

Con la parola buio si intende la mancanza di luminosità nell’ambiente e l’impossibilità che ne consegue di controllare gli eventi che accadono nello spazio circostante.
Chiudere gli occhi è un’esperienza che ci può dare le medesima sensazione del buio, come se calando le nostre palpebre, si spegnesse la luce, elettrica o naturale dell’ambiente nel quale ci troviamo.
Viceversa la persona che non vede, sempre che sia ben educata, possiede l’abitudine attiva di fondare la propria attenzione percettiva sui propri sensi residui e quindi non avverte l’assenza della luce con emozioni di smarrimento e di paura.
Il vero buio per i ciechi è forse costituito dal silenzio, vale a dire da un ambiente privo di sollecitazioni, di riferimenti sufficienti per il necessario orientamento nello spazio circostante.
Anche il silenzio dell’interlocutore può costituire per la persona che non vede un motivo di autentico disagio, proprio perché non sempre tale silenzio può essere da lei agevolmente interpretato.
Certamente il buio per eccellenza è comunque è rappresentato, nel caso della persona che non vede un motivo di autentico disagio, da un eccesso di rumore e di caos, poiché in simili circostanze il soggetto non vedente, ed in particolar modo il bambino non vedente, subisce una esperienza mortificante di grave smarrimento, tanto da perdere, talvolta, la medesima rappresentazione del proprio se.
A questo proposito è necessario sottolineare che l’inquinamento acustico costituisce indubbiamente una tra le principali barriere per l’autonomia dei ciechi e per la loro serenità durante le attività della vita quotidiana.